Anita B., di Roberto Faenza


Adattamento del romanzo Quanta stella c’è nel cielo di Edith Bruck, il film si accosta ai temi della memoria, del conflitto con il passato e della ricerca di un’identità. Purtroppo il risultato finale è incoerente con le premesse. Il peso della Storia a stento coincide con quello dei personaggi e sono pochi i momenti in cui si avverte l’importanza di appartenere a una cultura

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Guardando l’ultimo film di Roberto Faenza torna alla mente, come un’epifania, il celebre dialogo tra Pereira e Monteiro Rossi sulle ragioni del cuore: l’anziano giornalista esorta il giovane rivoluzionario a seguire l’istinto trovando però un equilibrio e stando con gli occhi sempre bene aperti. Faenza sembra aver accettato questo consiglio, e così il suo cinema, che nel corso degli anni ha mostrato una vena originale ed eclettica. Anita B. è un buon tentativo in tal senso di quelle ragioni che spingono alcuni registi italiani a rischiare, uscendo dal tunnel di una tradizione comico-commerciale a cui siamo da lungo tempo condannati.
Sarebbe stato facile fare un film sull’Olocausto e replicare, magari, il successo di Jona che visse nella balena (vincitore di tre David di Donatello). Faenza decide invece di raccontare il dopo, quando Anita, un’adolescente ungherese sopravvissuta ad Auschwitz, si trasferisce in Cecoslovacchia dalla zia, che abita in un villaggio dei Sudeti insieme al marito, il figlioletto e il giovane cognato, Eli. Nessuno però vuole che si parli dell’esperienza traumatica appena trascorsa (“Auschwitz deve restare fuori da queste porte”), mentre Anita sente il bisogno di ricordare. Tra lei ed Eli nasce presto l’amore, ma la diversità di carattere e i continui contrasti portano la ragazza a una scelta coraggiosa che cambierà il suo futuro.

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Adattamento del romanzo Quanta stella c’è nel cielo di Edith Bruck (che ha partecipato alla sceneggiatura), Anita B. è un film sulla memoria, il conflitto con il passato e la ricerca di un’identità. Non è la prima volta che Faenza si accosta a questi temi: lo aveva fatto nel già citato Sostiene Pereira, dove un Mastroianni ormai avanti con l’età, grazie ai consigli del dottor Cardoso, esce dalla gabbia che si era costruito (la letteratura, il ricordo della moglie, la paura della morte) per affermare il nuovo io. Ma è soprattutto con la protagonista di Prendimi l’anima che scattano le assonanze: Sabina e Anita hanno alle spalle un percorso travagliato – la prima ha perso la sorella e viene rinchiusa in manicomio per isteria, la seconda ha visto uccidere i propri genitori nel campo di concentramento; entrambe si confrontano con un presente incerto e lottano per i propri sogni (“Se non potessi sognare che senso avrebbe la mia vita?”, si chiede Sabina). E se con Jona Faenza aveva stemperato la drammaticità degli eventi narrandoli attraverso l’innocenza degli occhi di un bambino, qui punta la macchina da presa più in alto, sullo sguardo pieno di speranza di Anita che assiste affascinata alla proiezione del Grande dittatore di Chaplin.

Purtroppo il risultato finale è incoerente con le premesse. Il peso della Storia a stento coincide con quello dei personaggi, corpi vuoti che si aggirano per una Praga che non sembra essere stata invasa dai nazisti (l’unica traccia sono i vecchi cartelli in tedesco staccati dai muri). Sono pochi i momenti in cui si avverte l’importanza di appartenere a una cultura (le scene con l’esuberante Moni Ovadia). Il resto degli eventi scorre con troppa semplicità fino a un epilogo da cartolina, che non permette di andare oltre la superficie di un film didascalico ben confezionato.

Regia: Roberto Faenza
Interpreti: Eline Powell, Robert Sheehan, Andrea Osvárt, Antonio Cupo, Moni Ovadia, Jane Alexander
Origine: Italia, Ungheria, USA 2014
Distribuzione: Good Films
Durata: 88’

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