Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson

Il tempo, finora sommerso nella superficie nostalgica dell’immaginario, si rivela finalmente come la questione centrale. E come una scelta “politica” decisiva. Il passato diventa l’orizzonte mitico dello sguardo. Ma non come un malinconico rimpianto di un tempo andato, ma come un’altra strada, una biforcazione del presente, un progetto d’evasione

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Sì, certo, c'è sempre l'ossessione romancoppoliana per un'idea della famiglia e del cinema come grande comunità disfunzionale, che, proprio per le sue anormalità, è in grado di accogliere e integrare, seppur a fatica, gli elementi più "eccezionali" (e perciò la rottura, tragica o rivoluzionaria, non sembrerebbe ammessa). E poi quella costruzione a scatola chiusa di mondi perfetti/case di bambole con tutte le connessioni logiche e regole appropriate, le strutture sociali precise, rigide, metaforiche, eppure sovvertibili, permeabili.

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Ma proprio l'espressione "c'è sempre" indica il rischio di una morte per asfissia del cinema di Anderson. Colpa di quella maniera sempre più dichiarata dall’antinaturalismo del suo stile e del suo mondo, che si traduce puntualmente nella frontalità del punto di vista e dei corpi nell’inquadratura, nella traiettoria pulita delle carrellate, nella resa ironica della meccanica delle azioni (fino al culmine della sparatoria, eppure con “le pistole non si scherza” direbbe Simone Emiliani). In realtà è come se fosse sempre più evidente, in Anderson, la dissociazione schizofrenica tra la fantasia spinta dell’immaginazione e la razionalità centripeta, straniante, quasi brechtiana dello stile. Aldilà dell’impressione accattivante, film dopo film viene a definirsi una specie di “mostruoso” cinema architettonico, in cui le mirabili volute del progetto devono necessariamente tradursi nella precisione del calcolo strutturale. Precisione confermata, in fondo, dalla presenza puntuale dei soliti volti noti, gli amici di sempre (a cui si aggiungono Amalric, Brody, la Seydoux, Fiennes ovviamente…), i cui cameo contribuiscono alla fondazione dell’edificio, come fossero plinti in carne, ossa e immagine. E al termine di questa rigorosa costruzione, di queste lunghe rette formali e narrative, perfettamente esemplificate dalla linea impossibile della funicolare che collega al Grand Budapest Hotel, ci ritroviamo in un mondo in scala, in un modellino in plastilina, potenzialmente finto e morto…

 

Ma c’è sempre un appiglio. Sebbene il lato più sentimentale di Anderson sembri esser scomparso nella velocità del plot, qui, a differenza delle altre volte, la Storia, pur se "trasmutata" attraverso la vena fantastica e il filtro letterario di Stefan Zweig, apertamente omaggiato, entra prepotentemente in campo. E non certo come semplice sfondo.

La mirabolante avventura di Mr Gustave, il mitico cocierge del Grand Budapest Hotel, e del suo protetto Zero, il lobby boy, è un attraversamento continuo, tra i confini, gli anni, le due guerre, i cambi di casacca. E tutto passa attraverso i racconti di Zero, registrati da un Autore, che, a sua volta, ricorda la genesi della sua storia. Autore che ormai non è che un busto di bronzo, omaggiato da una ragazzina che ha in mano quel libro in cui sono racchiusi anni di storie, di memorie e di lavoro.

Il tempo, finora sommerso nella superficie nostalgica dell’immaginario, si rivela come la questione centrale. E come una scelta “politica” decisiva (del resto Gustave preferisce le vecchie), di predilezione per un cinema d’epoca (i citati Lubitsch, Mamoulian, Goulding) e per una pratica datata, “analogica”, nonostante le riprese digitali. in fondo il cinema di Anderson è sempre un carosello di modellini e pupazzi che si muovono a passo uno… Il passato diventa l’orizzonte mitico dello sguardo. Ma non come un malinconico rimpianto di un tempo andato, ma come un’altra strada, una biforcazione del presente, un progetto d’evasione.

 

E qui sta l’altro punto. Perché The Grand Budapest Hotel esplicita definitivamente un'altra grande ossessione di Anderson, poco citata, eppur evidente, almeno a partire da Fantastic Mr. Fox. Quella per il piano eversivo. Lo schema di furto e fuga, che già costituiva l’occupazione principale della volpe, il sogno degli amanti bambini di Moonrise Kingdom e che qui trova il suo momento culminante nell'escape plan orchestrato da un incredibile Harvey Keitel rasato e tatuato, per poi proseguire in una seconda fase, ancor più folle, messa in piedi dalla lobby dei concierge guidata da Bill Murray. Ecco, Anderson non che fa mettere in piedi un intrico personalissimo di strategie di fuga rispetto alle dittature del senso, dell’immagine presente e futuristica, delle mode e delle tecniche, delle pastoie dell’industria e del cinema d’autore. Razionalizza per evadere. Potrà piacere o no il mondo in cui di nasconde. Ma quel pugno alzato del Lupo verso Mr. Fox rimane un monito di libertà impagabile.

Titolo originale: The Grand Budapest Hotel
Regia: Wes Anderson
Interpreti: Ralph Fiennes, Bill Murray, Saoirse Ronan, Jude Law, Owen Wilson, Tilda Swinton, Willem Dafoe, F. Murray Abraham, Tony Revolori, Léa Seydoux, Adrien Brody, Edward Norton
Distribuzione: 20th Century Fox
Origine: Usa, 2014
Durata: 100' 

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