VENEZIA 71 – Nobi (Fires on the Plain), di Shinya Tsukamoto (Concorso)
Tsukamoto s’immerge nel magma emotivo della storia con il proprio corpo, prima ancora che con gli occhi e la mente. E racconta la guerra – con una potenza che ha ben pochi eguali – come l’esplosione estrema del caos percettivo, un inestricabile aggrovigliarsi dei punti di vista, dei piani, dei tempi, dei suoni. È lo stesso linguaggio del cinema che diventa carne da macello
Siamo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, tra le allucinate foreste di un’isola delle Filippine. Il soldato Tamura assiste all’inesorabile disfatta dell’esercito giapponese e cerca di salvare la pelle. Ma il problema fondamentale non è la tubercolosi che ne mina i polmoni. Neppure gli agguati dei guerriglieri nemici. È la fame, incontenibile, umiliante, essa stessa assurdamente “vorace”. Tamura prova ad accontentarsi di quel che trova, patate dolci, un sacchetto di sale. E a resistere alle tentazioni del cannibalismo…
Tsukamoto riprende Kon Ichikawa, dal romanzo omonimo di Shohei Ooka, ma lo rifà a modo suo, ovviamente. Innestando, letteralmente, la massa cancerosa della guerra nel corpo punk (molto prima che cyber) del suo cinema, in cui la tensione tradizionale all’astrazione delle forme è piegata dall’esplosività artificiale dei picchi visivi e uditivi, dalla distorsione emozionale di tutto ciò che attraversa il quadro, come pennellate violente che squarciano la tela bianca e innocente delle origini. Ed è chiaro da sempre come ogni tipo d’innesto sia una sorta di sospensione meccanica del punto di disfacimento, un’impalcatura surrettizia e incosciente tesa a tenere in piedi un residuo vitale oltre la dissoluzione, quell’entropia che sta al fondo di ogni trasformazione. Vita(l) e morte si contendono, lottando selvaggiamente, la gerarchia suprema sull’organico e l’inorganico.
Tsukamoto s’immerge nel magma emotivo della storia con il proprio corpo, prima ancora che con gli occhi e la mente (dimostrando, in maniera definitiva, di essere un grande attore oltre che un grande regista). E racconta la guerra – con una potenza che ha ben pochi eguali – come l’esplosione estrema del caos percettivo, un inestricabile aggrovigliarsi dei punti di vista, dei piani, dei tempi, dei suoni. È lo stesso linguaggio del cinema che diventa carne da macello, un selvaggio rumore di fondo fatto di spari, urla e lamenti, una collina di corpi fatti a pezzi e fiotti di sangue che occupano gli spazi e ridisegnano le geografie del paesaggio. È un universo incomprensibile: per questo non meraviglia che di fronte alle insistenti preghiere e rassicurazioni del soldato Tamura, gli abitanti rispondano con urla agghiaccianti che si confondono ai rabbiosi latrati dei cani. E non vale più cercare il legame, il raccordo esatto tra campo e fuoricampo: come se in guerra non fossimo tutti ostinatamente, dannatamente, continuamente in campo, a cercare di riconoscere, in noi stessi e negli altri, l’ultimo barlume di un’immagine identitaria.
Fires on the Plain è un film duro, estremo come il più crudo degli splatter. Ma raggiunge le sue vette più agghiaccianti in quel finale apparentemente tranquillo, visivamente riconciliato. Tamura è solo un pezzo di carne di incubi e rimorsi, che sgorga sangue sulle pagine dei suoi scritti. E non ci meraviglieremmo se prima o poi, tra le mura della sua casa o nel suo letto, ritrovassimo il Caterpillar di Wakamatsu, l’uomo verme, fatto a brandelli, mozzato mani e piedi dai tagli della Storia. Impotente e disperato, come il cinema tutto.