Regista per necessità. Incontro con Valeria Bruni Tedeschi

"È più facile per un cammello…" nasce da appunti clandestini presi nell'arco di diversi anni: frammenti di dialoghi, cut up di scene, idee per inquadrature. Al momento di rinsaldarli in una sceneggiatura, l'attrice si è resa conto di quanto fosse per lei necessario cimentarsi anche nella regia.

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Valeria Bruni Tedeschi ha un'aria solare e dimessa al contempo, appare fragile, non certo spaesata, ma emozionata questo forse sì. Sembra schernirsi di fronte alle domande e ai flash, eppure gli occhi le si illuminano quando finalmente parla del suo film – ossia, prima di tutto, della sua sceneggiatura. Medita a lungo sulle parole, quasi per assaporarle una ad una mentre ricostruisce la gestazione della pellicola; perché È più facile per un cammello… si è sedimentato solo col tempo, in un processo durato anni, originato dall'unione ragionata di frammenti di dialoghi, situazioni e sensazioni carpiti tra i set dei film degli altri e la vita di tutti i giorni. Un percorso faticoso, inizialmente non pensato in vista della realizzazione di qualcosa di definito. Solo quando il materiale scritto aveva raggiunto una sua prima autonomia, Valeria si è decisa a farlo leggere agli amici; ed è questo il momento fondamentale in cui si è resa conto dell'urgenza e dell'irrinunciabilità, per lei, del progetto. Sia Mimmo Calopresti (con cui Valeria aveva collaborato alla sceneggiatura di La felicità non costa niente), poi coinvolto in prima persona quale produttore, che Noémi Lvovsky (sceneggiatrice e regista a sua volta), che l'ha aiutata nella stesura definitiva per far emergere con totale coscienza le emozioni che voleva indagare, l'hanno letteralmente spinta a pensarsi quale regista. Proprio Noémi, presente all'incontro insieme a Mimmo, ad altri due produttori e a Marysa Borini (madre di Valeria nella realtà e nella finzione filmica), ha spiegato come nessun altro avrebbe potuto mettere in scena quella storia. Non per il banale fatto che si trattava in larga parte di riflessioni autobiografiche, ma per la caparbietà con la quale Valeria si era immersa nel cosmo della storia; magari senza neanche accorgersene, Valeria era sprofondata nei labirinti della sua scrittura, tanto che soltanto lei avrebbe potuto portarne alla luce tutte le potenzialità. L'esperienza registica è stata dunque per Valeria diretta conseguenza dell'esperienza come sceneggiatrice. Ha preferito non concentrarsi sulle scelte tecniche relative alla regia, ma sui simbolismi meglio in grado di far emergere le sue idee, partendo dai particolari per arrivare alla pellicola nel suo complesso. In questo lavoro, fondamentali si sono rivelate le lunghe discussioni con Noémi: è da questo continuo confronto che si sono sviluppate le soluzioni adottate con coerenza sul set. Dalla scelta di riprendere il vero corso di danza che Valeria frequenta a Parigi, con quei volti scavati ma pieni di passione, a quella di intermezzare gli eventi salienti del film con brevi balletti che esprimessero con il movimento le sensazioni (funzione simile al coro nelle tragedie greche): la gioia di una piroetta, la tensione del camminare sulle punte. Per questo grande attenzione è stata data alla fase di casting, durato più di un mese e terminato solo quando Valeria non è stata sicura di aver trovato i volti giusti. Anche la scelta di Marysa Borini è apparsa naturale, pienamente giocata sul piano professionale, con nessuna reticenza o imbarazzo, perché solo Marysa è parsa in grado di rendere la crepitante ironia della madre di Federica.

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In ultima battuta Valeria si è concentrata sugli aspetti più sfuggenti. Dalla scelta di abiti di scena sobri, ma in realtà molto ricercati e pensati (come le due magliette con la stella, quasi identiche, che Chiara Mastroianni indossa in due momenti cruciali di confronto con il padre malato) a soprattutto i temi religiosi e politici: nel clima sospeso tra ricordo, sogno, realtà e abbandono che permea la pellicola, Valeria ha cercato di creare un'atmosfera onirica, che potesse permettersi commistioni azzardate, ma significative (come la scena in cui la sua famiglia pasteggia allegramente con i rapitori, e tutti finiscono a cantare gli Intillimani). O come le frequenti visite al confessionale, usato come centro psicanalitico per redimere i sensi di colpa, spettro dell'indecisione della protagonista, che si lascia percorrere da una fede bulimica e scomposta nel tentativo sincero di comprendere le sue ansie. E per il futuro? Sulla regia Valeria Bruni Tedeschi non vuole sbilanciarsi, ma sta lavorando a una nuova sceneggiatura su un gruppo di attori di teatro – sempre insieme a Noémi Lvovsky e sempre ambientata in Francia.

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