Corpo a corpo, di Mario Brenta e Karine de Villers

Una volta entrati dentro al pulsare delle immagini si manifesta l’enorme tentativo del cinema di farsi carne, di inserirsi nel divenire dell’unicità dell’atto teatrale

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L’orchidea è il fiore più bello e il più malvagio, perché non riconosci quello vero da quello finto. La dualità insita nel titolo dell’ultimo lavoro teatrale di Pippo Delbono, Orchidee, appunto, rispecchia quella che sta dietro al lavoro di Corpo a Corpo, lavoro a quattro mani di Mario Brenta e Karine de Villers.

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L’orchidea possiede organi maschili e femminili racchiusi nello stesso corpo, nata dal sangue di Orchide, ragazzo che, dopo aver sviluppato tratti femminili, incapace di contenere questa molteplicità, trova la morte. Molteplicità che è invece alla base del lavoro della Compagnia di Delbono, che del corpo e delle sue incertezze fa strumento di indagine emotiva viscerale. I confini tra maschile e femminile sfumano fino a diventare indefiniti, così come dietro alla camera a mano, che con fatica segue lo spettacolo nel suo farsi, si confondono e si uniscono gli sguardi dei due registi. Il Corpo a Corpo del titolo incarna tanto questo intreccio serpentino che ha luogo sul palco teatrale (compresa la dualità delle immagini stereoscopiche proiettate sul fondale su cui si staglia la silhouette nera degli attori, immagine stupenda e che non a caso apre il film), quanto l’effettivo scontro tra il mezzo cinematografico e la carne degli attori. I registi rinunciano da subito a una pretesa di totalità di sguardo che all’apparenza regala l’esperienza teatrale, per concentrarsi sui frammenti e i detriti lasciati da questa incessante fucina di materiali messi in scena dagli attori/autori, che si esibiscono nel segno dell’improvvisazione davanti allo sguardo silenzioso di Delbono, mostrato qui non tanto nelle vesti di regista quanto di spettatore privilegiato, pronto a inglobare tutte le violente suggestioni che si dispiegano su un set multiforme che diventa un rifugio e una seconda casa (oltre che delle performance in sé, sono meravigliosi i momenti di sonno rubati agli attori, che stremati dalla fatica riposano inermi sulle poltrone della platea). Si ha l’impressione di avere davanti uno scheletro bianco, e di vedere fiorire piano su di esso fasci di muscoli e nervi, irrorati di sangue, fino alla comparsa dell’epidermide che riveste e protegge il corpo. Un corpo che

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Pippo Delbono in Corpo a Corponon si muoverà mai. È solo un’illusione momentanea. Le prove non sono prove, niente viene ripetuto. Non ci è dato vedere lo spettacolo intero, e non è la sua nascita ciò che prende forma davanti ai nostri occhi, ma qualcos’altro viene creato per gli occhi del cinema. Una volta entrati dentro al pulsare delle immagini, una volta abbandonata la pretesa di comprende il quadro più grande che comprende le singole scene, solo allora avviene un impercettibile, piccolo miracolo: nel vedere i corpi degli attori rapiti da movimenti di danza che sembrano eterni e così vicini, si manifesta l’enorme tentativo del cinema di farsi carne, di inserirsi nel divenire dell’unicità dell’atto teatrale, e dell’ancor più unico, privato, intimo momento delle prove, in cui gli attori riescono a raccontare il loro personale abisso con gesti e parole che ce li rendono familiari e distanti allo stesso tempo, ma è questo contatto impossibile il nucleo infuocato che rende Corpo a Corpo un’esperienza autonoma rispetto a Orchidee.

 

Prediligendo un proprio percorso interpretativo, che sembra sottostare alla messinscena teatrale ma che in realtà ne rimane svincolata grazie a un fortissimo sguardo personale, Brenta e De Villers riescono a toccare la sfera emotiva che collega attori e spettatori, rendendo palpabile, con straziante intimità, quella dimensione di amorecarne indefinibile che è il teatro.

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