Hrútar, di Grímur Hákonarson

Al Certain regard il film islandese in cui la traccia documentaristica ha una convivenza difficile con la struttura drammaturgica. Un grande freddo attraversato e parzialmente mancato

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                                                                                                                                                               Una vallata isolata d’Islanda. Segnata dai campi molto lunghi, dalle lunghe distese paesaggistiche e innevate. Con le stagioni che segnano un tempo secolare, che si ripete con regolare ciclicità. E proprio in quello trascorso c’è il vuoto: quello di due fratelli rivali che non si parlano da circa 40 anni. Vivono vicini l’uno all’altro, ma s’incrociano solo quando si sfidano per la gara per il miglior montone. Ora però rischiano di perdere proprio quegli animali (i ‘hrútar’ del titolo) che hanno sempre accompagnato la loro esistenza. Ed è così che si dovranno unire per scongiurare questa situazione.

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Grímur Hákonarson, al secondo lungometraggio dopo Sumarlandið del 2010 e che era già stato a Cannes alla Cinéfondation con Slavek the Shit, indugia spesso sui primi piani, nella contemplazione di uno spazio in cui sottolinea frequentemente il legame tra personaggio e ambiente come se fosse qualcosa di inseparabile. Hrútar parte da delle tracce documentarie che convivono con una precisa struttura drammaturgica. E il legame non è sempre semplice. Se il finale nella tempesta di neve ha infatti un forte impatto, risultano talvolta forzati i contrasti tra i due fratelli, come per esempio nella scena degli spari al vetro delle finestre di casa nella notte o nell’uccisione dei 147 montoni. Questo era un film che già era predisposto per alimentarsi di sguardi, di silenzi, di distanze. E invece lo sguardo di Hákonarson non si è fidato di quello che aveva davanti, di come comunque padroneggiava il set. E nella narrazione, nella malattia dei montoni, nel contrasto con le autorità, ha forse cercato un ibrido alla Local Hero, un film forse fatto apposta per piacere al pubblico del festival. Un grande freddo attraversato e parzialmente mancato. Eppure nella storia c’erano tutte le potenzialità. Si richiedeva un lavoro di sottrazione che è stato più annunciato che eseguito.

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