#Berlinale2016 – Cartas da guerra, di Ivo M. Ferreira

Il regista portoghese sembra confrontarsi costantemente con il Terrence Malick de La Sottile Linea Rossa, anche se pare averne assorbito gli stilemi svuotandone la poetica. In concorso

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In Cartas da guerra il regista portoghese Ivo M. Ferreira sembra confrontarsi costantemente con il Terrence Malick de La Sottile Linea Rossa, anche se pare averne assorbito gli stilemi svuotandone la poetica.

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1971: il giovane medico portoghese Antònio Lobo Antunes viene separato dall’amatissima moglie incinta, ed inviato in Angola per la guerra coloniale che devastò il paese fino al 1975. Dall’esilio forzoso Antunes e sua moglie mantennero una corrispondenza costante, divenuta il libro D’Este Viver Aqui Neste Papel Descripto – Cartas da guerra. Dalla prima all’ultima inquadratura, Cartas da guerra segue il filo della voce off della moglie, che legge le lettere tra i due, per questo film dall’estetica a tratti esasperata. Non c’è il dolore di Malick, ma una serie di tableaux vivants che bloccano le immagini in delle splendide fotografie dal bianco e nero saturo, rimandando a Robert Capa o ai reportage di viaggio di Salgado. I soldati del film di Ferreira sono sperduti, cercano un appiglio, un punto fisso; ed in tal senso le lettere di Antunes alla moglie sono delle reiterate ricerche di salvezza, mostrano un attaccamento famelico ad una passione divenuta ossessione.

cartas da guerra-paesaggioMa di Malick non c’è la levità, non c’è lo scorrere ininterrotto di una serie di quesiti irrisolti ed inesauribili. Anche quando i testi cercano il calore del corpo dell’altro come un rifugio, manca la carnalità sublimata nelle parole che trasudano speranza, che in Malick rimandano costantemente ad un mondo altro, divenuto forse illusione, ma unico appiglio per mantenere il soldato Bell in vita. In Cartas da guerra c’è la sospensione in un limbo dal quale non emerge mai la “realtà”, seppur reinterpretata o “reinventata”. Quella mostrata da Ferreira non sembra una guerra, quanto piuttosto un purgatorio, la rappresentazione di un tempo passato divenuto una pura costruzione tramite lo sguardo del regista, all’interno del quale i soldati sono relegati per una qualche punizione divina. L’altalenare costante tra presente e passato di Malick qui diviene quindi un passato ideale dalle forme oniriche, dove il confronto con il “nemico” si perde in un’attesa snervante.

Il flusso di coscienza di Antunes/ Ferreira diventa un monologo, dove la moglie appare in rari istanti come un fantasma che si muove in stanze vuote, e i volti straziati dei soldati morenti non rompono la barriera della struttura visiva. Non c’è l’umanismo malickiano, la psicologia del personaggio rinchiusa in uno sguardo. Se in Malick tutto sfugge, in Cartas da guerra tutto volge al controllo. Rimangono le parole disperate, la preghiera inesauribile, non scordarmi, non abbandonarmi nel momento del bisogno, che in Malick si rivolgeva a nulla e a tutto: alla donna amata, ad un Dio sfuggente, alla propria coscienza, allo spirito fugace, a tratti empatico e a tratti maligno di una natura muta, mentre nel suo film Ferreira, forse consapevolmente, annulla tutto ciò che prescinde dal privato del protagonista, e facendo ciò aliena anche lo spettatore.

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