Faces/Volti – Pierfrancesco Favino: il talento intrappolato

Pierfrancesco Favino Oggi Pierfrancesco Favino rappresenta forse il caso-limite della sistematica mortificazione del giovane patrimonio attoriale in Italia. Talentuoso emblema di una categoria di interpreti assolutamente straordinaria per formazione e aspirazioni e però letteralmente intrappolata in un cinema ristretto, asfittico, dannatamente appesantito. GALLERIA FOTOGRAFICA – VIDEO

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Ma che ne so io della mia immagine?"
Come faccio a sapere che immagine c'ho?
Ma io, veramente, come sono?

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(P.Favino)

E dire che fino a qualche film fa Pierfrancesco Favino aveva ancora solo una faccia conosciuta. Dai primi anni '90 all'inizio del millennio è cresciuto silenziosamente negli angoli degli schermi nazionali: piccoli parti in televisione, alcune scelte impegnate e invisibili, camei trascurati, una manciata di commedie sbagliate.


Ma adesso che è cresciuto ed è finalmente riuscito a conquistarsi lo status d'interprete ufficialmente “bravo” – adesso che ha lavorato con Placido, Amelio, Tornatore ed Ozpetek, adesso che è stato addirittura ad Hollywood, adesso che Spike Lee in persona l'ha voluto nel cast del suo prossimo film sulla resistenza partigiana – beh, adesso è probabilmente diventato un autentico e paradossale simbolo della difficile condizione del cinema italiano di questi ultimi anni. Talentuoso emblema di una categoria di attori assolutamente straordinaria per formazione e aspirazioni e però letteralmente intrappolata in un cinema ristretto, asfittico, dannatamente appesantito. Un cinema che continua ad ignorarne il potenziale stratosferico, a riservargli attenzioni e ruoli minori, a negargli ostinatamente la grande occasione. In questo senso Pierfrancesco Favino rappresenta oggi un – forse “il” – caso-limite della sistematica mortificazione del giovane patrimonio attoriale in Italia: mortificazione di un talento enorme trattato con cecità e noncuranza, fatale conseguenza di una più generica superficialità nel concepire il rapporto con gli attori da parte tanto dei registi che dei produttori.


E forse non è un caso che sia stato proprio un autore fondamentalmente libero dalle inerzie dei soliti circoli come Enzo Monteleone ad affidargli nel 2002 – dopo alcune partecipazioni tutto sommato trascurate a celebrati film generazionali come L'Ultimo Bacio, La Verità vi prego sull'amore e Da zero a dieci – il ruolo che ha fin qui forse maggiormente esaltato le sue grandi capacità di interprete: in El Alamein Favino dà infatti vita ad un personaggio indimenticabile per densità e realismo, calandosi con precisione millimetrica nei panni di un giovane sergente impegnato nella guerra africana del '42 e riuscendo contemporaneamente a dare prova di uno stupefacente trasformismo linguistico.


Così come altrettanto significativo appare, nel momento in cui il grande cinema sembrava ancora deciso a voltargli le spalle, il felice e gratificante percorso professionale intrapreso dall'attore romano all'interno della fiction televisiva nostrana (autentica riserva di professionalità e inventiva, coi tempi che corrono): prima Padre Pio e Ferrari, due serie di successo che vedono Favino a lezione dal grande – e lui sì: riconosciuto solista – Castellitto, e poi il successivo debutto da straordinario protagonista nei panni del leggendario Bartali.


Ed è soprattutto in quest'ultima prova che Favino impone definitivamente la travolgente forza espressiva del suo corpo-cinema: corpo dotato di una rara e completa disponibilità alla manipolazione autoriale, di una flessibilità interpretativa assolutamente inedita. Un fuoriclasse purissimo prigioniero di una classe d'autori a pezzi, di un cinema che non sa incarnarne la forza ed il carisma e che anzi sembra provare masochisticamente gusto ad imbrigliarne l'energia dentro copioni e maschere già letti e già viste. Un'autentica palude creativa che continua a impantanare talenti ed a infoltire le fila di una generazione d'attori cronicamente immatura, senza maestri, e ferma da tempo ad aspettare che il cinema italiano si decida finalmente a raggiungerla.
E allora forse l'involucro di creta creato dai truccatori hollywoodiani per il personaggio-statua di Cristoforo Colombo interpretato dallo stesso Favino in “A Night at Museum” potrebbe in fondo funzionare come concreta e metaforica rappresentazione della recente pietrificazione dei nuovi corpi del cinema italiano: strizzati dentro i soliti ruoli, dentro le stesse Storie, senza respiro.

 

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