FILM IN TV – "Riso amaro", di Giuseppe De Santis
In Riso Amaro, De Santis riesce a fondere stili e metodi apparentemente inconciliabili: quello americano creatore di miti e divi, e l’aggressione della realtà del neorealismo italiano. Le traiettorie incandescenti dei desideri dei protagonisti, avvinti in un triangolo da film noir, non stridono con una rappresentazione partecipe e documentata del mondo delle raccoglitrici di riso. Ma a tratti il film decide che l’esperimento è troppo audace, si pente, e inserisce una voce della coscienza che sembra voler punire il suo stesso sogno americano. Venerdì 16 marzo Rai Storia, ore 21
Questa duplicità di segno non va a svantaggio della capacità di descrivere l’ambiente, neppure nella sua vocazione più didascalica e documentaristica. Anzi, il modello americano sembra suggerire a De Santis soluzioni audaci fin dall’inizio: il primo piano di un uomo che guardando in macchina descrive la realtà delle mondine quasi come fosse il narratore del film, e che con una carrellata all’indietro si rivela essere uno speaker radiofonico. Per non dire delle efficaci panoramiche che si aprono su ambienti ed azioni perfettamente coreografate, o dei tagli di luce da noir del deposito del riso, luogo anche delle macchinazioni criminali di Walter. Anche sul piano narrativo, lo sguardo antropologico riesce a convivere con l’amplificazione dei conflitti e delle passioni dei personaggi: i canti delle mondine al lavoro veicolano il duello delle due protagoniste e rivali, in una delle scene più sorprendenti e riuscite del film.
Film che fallisce invece quando rinuncia a fare dell’ambientazione il campo di battaglia dei desideri e degli scontri dei protagonisti, ergendola a portatrice di valori morali alternativi. Riso Amaro sembra a più riprese voler espiare il suo contenuto più ribollente. Il personaggio del militare interpretato da Raf Vallone interviene nella narrazione quasi come fosse la coscienza critica del film, svolgendo un ruolo sostanzialmente normativo e disinnescando i conflitti. Non a caso risolve due delle scene più potenti: la zuffa fra i gruppi di mondine rivali e lo straordinario ballo fra la Mangano e Gassman, con Doris Dowling che dispensa loro sguardi taglienti da donna fatale da film noir, genere che sembra aderire perfettamente alla fisicità dell’attrice (fra le protagoniste, fra l’altro, de La Dalia Azzurra). Ma il noir è un genere sostanzialmente urbano: nella grande metropoli le coordinate morali si perdono fra le strade, la terra invece segue l’eterna logica ciclica della natura, e la suggestione di Francesca femme fatale svanisce rapidamente mentre viene redenta e salvata dal duro ed onesto lavoro. Nel suo percorso speculare di dannazione, Silvana diventa invece il capro espiatorio del racconto. Operando una sorta di atto di contrizione, il film si punisce attraverso il personaggio della Mangano, reo di sognare lo stesso sogno americano.