"La mia vita a stelle e strisce", di Massimo Ceccherini

E' Ceccherini la ragione dello spettacolo, il suo corpo il motore roboante e imprevedibile di istanti assolutamente fuori da ogni controllo che rifanno senza sosta la limitatezza del set, travestendola da teatro del corpo.

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Massimo Ceccherini è il nuovo Frankenstein del cinema italiano. Per Frankenstein intendiamo corpo smontabile, rimontabile, pronto poi per schizzare dall'interno del castello di fabbricazione, all'esterno della realtà, o meglio, del presunto reale. Un assemblaggio di pezzi vari allora, e ancor di più un mosaico di celluloide incapace di fissarsi all'interno di un'unica inquadratura. Quando si chiamava ancora Lucignolo (un'opera teorica, se vogliamo, ma anche un trattato su quello che è il piacere di fare del cinema una successione di momenti già fotografati e poi ritrasmessi su frequenze diverse) si accontentava di stazionare all'interno dell'immagine, provocando concatenazioni assurde e velocità da capogiro, mentre ora, fa qualcosa di più. In La mia vita a stelle e a strisce infatti, Frankenstein/Ceccherini torna direttamente sul luogo di nascita, laddove è venuto alla luce, proprio là, nel casolare di campagna perso in una Toscana soleggiata, in cui nel Ciclone pensava a curare i terreni della famiglia. Si tratta allora di vestire la ripetizione di un set pressochè identico a quello del "secondo" Pieraccioni con un fascio di luce anche stavolta spiazzante (a turbare la quiete agreste ne il Ciclone vi era l'irruzione delle ballerine spagnole, mentre qui Ceccherini riceve la visita della zia americana), che segna un avvicendamento inquieto di segni in grado di creare all'interno di uno stesso spazio la coesistenza del normale e dello straordinario, del vicino e del distante. In questo senso allora il casolare quale luogo d'origine (e d'elezione) di un corpo assiso su traiettorie sempre stralunate diventa improvvisamente lo spazio in cui Ceccherini inizia a disfarsi progressivamente dell'eredità, umana e per così dire fisica, dei suoi padri, filmando di fatto la veloce liberazione dai connotati dello script di Veronesi, e dall'altra parte osando quello che Pieraccioni non ha mai osato. Parliamo della fattuale perdita di ogni logica legata allo schematismo tipologico e al denudamento del nucleo narrativo (l'impronta di Veronesi insomma che tende a incasellare, etichettando anche precisamente ogni brano del racconto) che Ceccherini fa sbalzare di sella per avventurarsi in un cinema che segna oggi forse per la prima volta il superamento delle chiusure tipiche della nostra commedia. E' lui la ragione dello spettacolo, il suo corpo il motore roboante e imprevedibile di istanti assolutamente fuori da ogni controllo (le strategie di resistenza contro l'invasione americana dei parenti) che rifanno senza sosta la limitatezza del set, travestendola da teatro del corpo (la parola resiste, ma ancora per poco) in cui si procede all'inversione surreale e carnevalesca della realtà, rigenerandola nel suo contrario ed esibendola nella sua naturale ambiguità. Lontano dalle lusinghe di un cinema "colto", più vicina all'idea di una messinscena quasi primaria, alimentata da uno sguardo che azzera quasi tutto il cinema italiano corrente, per ripartire nuovamente dall'inizio.

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Regia: Massimo Ceccherini
Sceneggiatura: Massimo Ceccherini, Giovanni Veronesi
Fotografia: Tani Canevari
Montaggio: Alessio Doglione
Musiche: Stelvio Cipriani
Scenografia: Sonia Peng
Costumi: Franco Casaglieri
Interpreti: Massimo Ceccherini (çLando), Victoria Silvstedt (Wendy), Novello Novelli (Padre di Lando), Manuela Magherini (Zia Giuly), Cyrus Elias (Zio Jack), James Holly (Nicholas), David Corbett (Matt)
Produzione: Fulvio Lucisano per Italian International Film
Distribuzione: IIF
Durata: 110'
Origine: Italia, 2003


 


 

 

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