#RomaFF11 – Incontro con Bernardo Bertolucci

Parla tanto e con vigore e voracità di cinema Bernardo Bertolucci, durante l’incontro col pubblico all’Auditorium, ripercorrendo le tappe della sua carriera

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Grandissima l’attesa ieri per l’incontro, in Sala Petrassi, con Bernardo Bertolucci, regista che in oltre cinquant’anni di arte cinematografica ha ispirato e affascinato (e continua a farlo) intere generazioni, di addetti ai lavori e appassionati di cinema.
C’erano, secondo me, in quegli anni (negli anni ’60) due direzioni del cinema che amavo: quella di Bresson, che era severa e rigorosa, e Ozu: piani fissi, film bellissimi e profondi. Poi c’era Mizoguchi, che raccontava storie epiche e romantiche con grandissimi movimenti di macchina: a me sembrava di essere più vicino a questo… sono sempre appartenuto a un cinema che non era severo o ascetico, ma che in qualche modo era generoso, che buttava parti di pubblico dentro il movimento.” Ed è proprio con enorme generosità che il regista, classe 1941, uno dei massimi esponenti del cinema contemporaneo italiano e internazionale, si è donato ieri pomeriggio al pubblico. Condividendo con i suoi estimatori di tutte le età la sua grande, fortissima passione per il cinema. A scandire l’incontro sei sequenze di alcuni tra i capolavori del Maestro, scelti e poi argomentati da lui. Si parte dalla sequenza de Il conformista (1970) nella quale Marcello (Jean-Louis Trintignant) torna nella camera d’albergo parigina e spia la Sandrelli e la Sanda: The Conformistil voyeurismo mi interessava perché chi ama usare la macchina da presa, forse non tutti ma quelli a cui mi sento più vicino, sono in realtà voyeur. Marcello in quel momento è un voyeur, ma anche la macchina da presa fa del voyeurismo. Soprattutto in quegli anni avevo iniziato una lunga analisi freudiana, perciò non potevo non pensare che il buco della macchina da presa fosse come il buco della serratura, quella dei genitori“. E rispetto a quel film tanto controverso, che fece addirittura infuriare Jean Luc Godard – “non mi dice niente e mi da un foglietto e va via, lo apro e c’era un ritratto di Mao con scritto in pennarello rosso: ‘bisogna lottare contro l’egoismo e l’individualismo’, io mi arrabbiai, lo strappai lo calpestai. Invece come sarebbe stato bello averlo ancora.” – in cui Bertolucci cambiò il finale rispetto all’originale del romanzo di Moravia, il regista afferma che “il finale del libro era per me inaccettabile, perché mi sembrava qualcosa che veniva dall’alto, troppo simbolica, invece la punizione è racchiusa nel primo piano di lui che forse capisce tutto quello che è stata la sua storia la sua vita.
Altra sequenza importante, quella dell’incoronazione di Pu Yi ne L’ultimo imperatore (1987),

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imperatore nella quale il regista ricorda l’uso di “centinaia, migliaia di comparse, se ci penso oggi sarebbe stato possibile farlo col digitale“, e a proposito di digitale aggiunge “mi sembrava troppo definito, non c’era quel minimo di indefinito che c’è sempre nella pellicola. In fondo la pellicola ricorda la pittura impressionista. Adesso se dovessi fare un film userei il digitale perché è qualcosa ancora da esplorare. Amo molto la tecnologia, non so se avrò tempo per approfondire il digitale… chissà se andando più in là non riesca a leggere dentro al personaggio.
Proseguendo poi con un altro capolavoro, Novecento (1976) – l’indimenticabile sequenza di “Mi inculo la terra“, con Alfredo e Olmo bambini – Bertolucci commenta la vita distributiva tanto difficile che il suo film ai tempi visse, parcellizzato e tagliato dalla Paramount (perché 5 ore erano troppe) e la dedica che tutta l’opera fa a suo padre: “Mio padre mi ha insegnato tutto: la poesia, perché era un grande poeta, era critico cinematografico della gazzetta di Parma e mi portava dalla campagna in città al cinema. Novecento è un omaggio a mio padre, che mi ha insegnato tutto. Era un grande ipocondriaco, è stato una scuola di ipocondria non indifferente, forse mi sono liberato un po’ di questa ossessione per il corpo solo quando è morto.novecento1Ricorda con divertimento il fatto di essersi inventato quel nome, Olmo (Gerard Depardieu) perché all’epoca girava una malattia degli olmi e “in questa ossessione megalomanica da regista pensavo di salvarli. E tantissimi bambini – dopo il film – si sono chiamati Olmo. Perciò, vero o no, la malattia degli olmi è stata superata.” E ricordando l’altro suo capolavoro Ultimo tango a Parigi (1972), ricorda quanto Marlo Brando, “l’uomo più bello del mondo, di sempre, abbia dato “peso e corpo a un personaggio che non esisteva se non sulla carta“. Parla tanto, e con vigore e voracità, di cinema Bernardo Bertolucci, come del primo film visto in una sala cinematografica, Biancaneve, “il film più terrificante e sadico per i bambini“, e degli autori che ama da una vita, come Godard e Rossellini: “Ho dovuto metabolizzare le influenze che hanno avuto su di me. Se qualcuno viene e mi dice che una mia inquadratura gli ricorda le inquadrature di altri, penso sia naturale. Tutti i grandi registi sono stati dei ladri di cinema. Chi non ha scopiazzato qualche film che amava molto? L’importante è non farsi scoprire.

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