Teoria della trasformazione. Il cinema di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi

A "Fuori orario" da stanotte a sabato 13 luglio, omaggio – da non perdere – al cinema sperimentale di due autori che hanno fatto della ricerca il loro imperativo

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"Catalogo della scomposizione" è il titolo di uno degli oltre quaranta film realizzati da Jervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, dalla metà degli anni Settanta ad oggi. Titolo che da solo molto racconta del loro modo di lavorare, del loro sguardo sul cinema che, ogni volta, sembra tradursi in una reiterazione dello sguardo, in un ripetersi dello stesso gesto che si fa immediatamente riflessione teorica sul valore e sulla responsabilità della visione. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di film che si nutrono di cinema, di immagini già viste, talvolta dimenticate, talvolta addirittura sconosciute, che sono fatte rivivere nel tornare ad essere l’oggetto del vedere di qualcuno. In questo senso ogni opera diventa un archivio del tutto personale, un catalogo appunto, dove le immagini rappresentano lo strumento e il mezzo per sfiorare la memoria, suggerire ricordi, rispolverare idee che, forse, in origine, quelle immagini non avevano.

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E non si tratta solo del senso in più di cui si arricchiscono, ma del movimento di ricerca all’interno del fotogramma (all’interno del cinema), della sua scomposizione analitica che deve passare attraverso nuove lenti, obiettivi e macchine, alla ricerca di una distanza, di una velocità, e persino di una luce nuova entro cui trovare il proprio respiro.

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Teoria della scomposizione e della trasformazione, si dovrebbe dire, allora, in riferimento alla prassi seguita in film come "Animali criminali" (1994) oppure il bellissimo "Dal Polo all’equatore" (1986), dove, i filmati d’archivio del pioniere documentarista Luca Comerio, rifotografati con una camera di loro invenzione, vengono fatti scorrere più lentamente, divenendo, in questo modo, testimonianza duplice di resistenza al tempo, contro il tempo. Analogo il lavoro per i molti altri cosiddetti “Cataloghi” che fanno parte della loro filmografia.
Film di differenti durate in cui si compone una sorta di album, in cui si accostano e si paragonano fotografie, oggetti, materiali, profumi, persino gesti, dettagli somatici del volto degli attori del cinema muto ("Catalogo 9,5 – Karagöez", 1979\81), cercando di scoprire in ogni frammento, particolari nascosti, segni invisibili che vengono fatti riemergere e portati in primo piano.
Il punto di partenza sembra essere sempre lo stesso, mettere a confronto il passato e il presente facendo emergere tutti gli aspetti possibili, il prima e il dopo non solo della Storia, ma anche del cinema e, quindi, ancora una volta, dello sguardo. È così, ad esempio, in "Prigionieri della guerra" (1995), composto dai materiali girati sui fronti opposti della prima guarra mondiale e passando in rassegna luoghi che non conoscono differenze di fronte (tra i profughi, i prigionieri, gli orfani), in "Su tutte le vette è pace" (1998), in cui si incontrano i filmati dell’esercito sul fronte delle Alpi e quelli girati da Comerio, e, infine, in "Inventario balcanico" (2000), ricostruzione della vita sui Balcani prima della guerra e della distruzione.

Passando in rassegna i lavori firmati da Gianikian e Ricci Lucchi si sente forte il desiderio di vedere questi film tutti d’un fiato, come a presupporre l’esistenza, nei vuoti e nei neri che, idealmente, possono dividerli, ulteriori particolari che la loro “camera analitica” ha volutamente lasciato ai margini, nell’attesa di essere riscoperti.

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