(unknown pleasures) – Rundskop, di Michaël R. Roskam

Rundskop

Una grottesca tragedia greca, come la la definisce il regista, su come il nostro destino sia pilotato a volte da eventi sui quali non abbiamo alcun controllo. I fatti sono semplici e sembrano seguire le coordinate del noir: ma il tocco è magico, impeccabile, e il genere si avvita in una specie di dramma pastorale fuori dal tempo, immerso in luci caravaggesche

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Michaël R. Roskam, il regista di RUNDSKOPIL REGISTA

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Quando presenta Rundskop in anteprima nella sezione Panorama della 61° Berlinale, nel 2011, poi nominato agli Academy Award for Best Foreign Language Film e purtroppo non premiato, il belga Michaël R. Roskam, con alle spalle studi di pittura e di arte che si riflettono nella raffinatezza del suo sguardo, ha già diretto quattro corti : Haun (2002) Carlo (2004, vincitore di numerosi riconoscimenti) The One Thing to Do (2005) e Today is Friday (2007). Il suo potente esordio nel lungometraggio ha attirato l’attenzione del mondo: è stato chiamato a sostituire Darren Aronofsky alla guida di The Tiger, scritto da Guillermo Arriaga, prodotto e interpretato da Brad Pitt, storia di un attivista alle prese con una tigre siberiana che minaccia un villaggio, potrebbe occuparsi di HBO: Buda Bridge, serie tv che fonde crime stories e fantascienza, prodotta da Michael Mann e dal produttore esecutivo di Breaking Bad, Mark Johnson.

Ma non rinuncia alle atmosfere malate e scurissime che stanno gettando una splendida tenebra sul nuovo cinema belga: con Matthias Schoenaerts potrebbe girare The Faithful, ganster movie su una banda criminale ambientato negli anni ’90, e attualmente è impegnato sul set di Animal Rescue, tratto da un racconto di Dennis Lehane, con Tom Hardy e Noomi Rapace: un’altra incursione in un paesaggio congeniale al talento di Roskam, uno squarcio di mondo popolato da umiliati e offesi, dove la scelta dell’uomo di fronte alla violenza resta l’unico aspetto capace di definire la sua umanità.

IL FILM

Rundskop è una grottesca tragedia greca, la definisce il regista, su come il nostro destino sia pilotato a volte da eventi sui quali non abbiamo alcun controllo. I fatti sono semplici e sembrano seguire le coordinate del noir: Jacky Vanmarsenille, allevatore di bestiame, viene coinvolto attraverso un veterinario senza scupoli in un commercio legato al mercato degli ormoni. Un poliziotto federale viene ucciso, il cerchio si stringe intorno a Jacky, il passato ritorna con tutto il suo carico oscuro di sofferenza, impotenza e fatalità.
Ma il tocco di Roskam è magico, impeccabile, e il noir si avvita in una specie di dramma pastorale fuori dal tempo, universale, dove Jacky, la schiena e la nuca, il corpo massiccio e mutilato di Matthias Schoenaerts, è il corpo del reato: la perdita dell’innocenza non spiegata, non giustificata, solo esposta al nostro sguardo.

Matthias Schoenaerts in Nella scena in discoteca, non tanto lontana da quelle che solo Michael Mann e James Gray (e Jacques Audiard, del quale Roskam potrebbe essere il fratello minore belga, sospeso tra esistenzialismo e genere) sanno filmare, nel rombo della musica la macchina da presa di Roskam si sofferma con esemplare e istintiva sicurezza sul volto di Jacky, sul suo profilo spaccato, sulle vene che si gonfiano sul collo e sulla fronte: una fiera gettata nella fiera (del divertimento) che si aggira solitaria e immensa nella notte, ma un animale spezzato, in posizione di difesa e di attacco allo stesso tempo, che cova lo scatto del predatore e l’immobilità stolida delle bestie imbottite di ormoni da cui dipende.

Lui stesso è una bestia carica di steroidi, e raccontare a parole l’analogia tra Jacky e gli animali gestiti dalla mafia della carne rischia di sembrare didascalico: invece Rundskop è un film mirabilmente asciutto, maturo, e lascia all’evidenza dei fatti la sintesi tra uomo e animale.
Il succo beffardo di questa chimera, in Rundskop, è che Jacky Vanmarsenille, il pastore contadino, lontanissimo dalle palestre patinate dei cultori della forma, come scopriremo in una scena, cresce il suo corpo a dismisura come lotta selvatica contro la menomazione.

La scelta della rappresentazione della violenza è un banco di prova per un cineasta, e Roskam la supera brillantemente, senza indugiare, scegliendo con intelligente crudeltà di lasciare la parte del carnefice a un ragazzino disturbato, che sarebbe oggetto di compassione, tenendo fuori campo l’indicibile (l’infilmabile, in definitiva) ma mostrandoci le conseguenze senza rimedio in tutta la loro infallibile permanenza. I cerchi concentrici intorno alla pietra scagliata diventano un oceano.

Matthias Schoenaerts in Ben prima di Ruggine e Ossa, e un po’ come per il Joaquin Phoenix di The Master, emerge la straordinaria capacità di Matthias Schoenaerts di restituire una straordinaria ambiguità: una vulnerabilità esplosa, una bellezza virile che ammutolisce, ma sempre crepata da qualche frattura (qui, oltre al naso spaccato, ha preso 27 chili non di armonia, ma di peso scomposto, mal distribuito, la croce che si autoinfligge e il peso del suo stesso destino); l’assoluta aderenza al proprio corpo come manifesto dei calci e dei morsi dell’esistenza passata e presente (la scena nella vasca da bagno) l’arte di indossare il dolore come se fosse nient’altro che un grumo da sputare, un nodo di muscoli, carne e nervi, e non una faccenda della mente: ciò che è, in effetti, è.

Specialmente nei momenti in cui non si può fare la guerra, ma bisogna conformarsi in qualche modo ai costumi dei civili, struggente e patetica umiliazione di un cavernicolo costretto ad acquistare un profumo (la scena dell’acquisto nel centro commerciale) pur di segnalare il suo disperato desiderio di essere amato per una volta. Per un attimo, l’illusione di una vita altra, tanto effimera che non viene nemmeno consumata.

Come ancora prima, in Linkeroever (Left Bank) del connazionale Peter Van Hees, dove Schoenaerts, fidanzato apparentemente premuroso appassionato di tiro con l’arco, sapeva instillarci nell’orecchio gocce di ambiguità solo con qualche sguardo e qualche gesto: un film scritto da scritto da Dimitri Karakatsanis, autore del bellissimo Small Gods, con la fotografia vibrante di Nicolas Karakatsanis, in grado di trattare con la stessa intensità le figure umane e lo spazio in cui si perdono (e si distruggono).

RUNDSKOP: la fotografia di Nicolas KarakatsanisL’uso del paesaggio in controcanto, specchio e sintonia rispetto all’interiorità dei personaggi è lo stesso che in Rundskop, solo dilatato. Gli emozionanti paesaggi delle Fiandre toccano come un controcanto il corpo ferito di Jacky, cupe luci caravaggesche mentre sferra pugni al Nulla, ospitano indifferenti le manovre di gangster malvestiti, agenti e agricoltori indistinguibili l’uno dall’altro, uomini abituati a parlare poco e a chinare il capo sulle proprie vigliaccherie (l’ottimo Jeroen Perceval, lo sgualcito Sam Louwyck) dove nessuno è buono o cattivo. “Non ci sono cowboy e indiani”.Tutti, meglio che possono, si limitano a sopravvivere. Anche a se stessi.

 Il trailer è visibile anche qui

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