Untitled, di Michael Glawogger e Monika Willi

Un film postumo, sulla scomparsa certo, ma che rimanda il senso della fine oltre i limiti smarginati del testo. E che perciò ritrova nella dissoluzione, tra le macerie, l’infinita virtualità del vuoto

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Chissà che non sia stato uno strano messaggio del Destino, morire in Liberia, la terra degli “schiavi liberati”. Come se l’unica liberazione possibile fosse proprio la fine, al di là della retorica utopica di una rinascita, di un’umanità finalmente padrona del futuro. Ma qui nessuno è padrone di nulla, e lo stesso Destino è una forzatura in maiuscolo, è solo un nome che diamo a un’idea, o meglio a un bisogno, a quell’insopprimibile necessità cdi leggere nelle cose tutti quegli ipotetici segni che funzionino da appiglio, da chiavi di un senso nascosto. Eppure, il fascino di Untitled sta proprio nella incompiutezza del suo titolo, nella precarietà della sua struttura e delle sue traiettorie, nella sua mancanza di definizione. Mancanza voluta sin dal principio da Glawogger, che sceglie di fare un “film di viaggio” senza meta apparente, un anno di peregrinazioni e di derive che scoprano nel corso del tempo la loro logica. Mancanza, poi, determinata dai fatti, dalla scomparsa improvvisa di Glawogger, che nel mezzo del viaggio, ad Harper, in Liberia, si ammala di malaria e muore in un paio di giorni, dopo una diagnosi medica sbagluata. Nel flusso, la fine si ricongiunge con l’inizio.

È l’aprile del 2014. Il progetto del film viene preso in carico dalla montatrice di fiducia Monika Willi, che prova a dare una forma al materiale girato dal regista e dal direttore della fotografia Attila Boa, sei mesi di riprese tra Ungheria, Serbia, Albania, Italia, Marocco, Senegal, Sierra Leone e quant’altro. E sceglie di introdurre una voce di commento femminile (Nada in italiano) a partire dai diari di viaggio di Glawogger, tutta una prosa poetica che traccia i fili funanbolici di un percorso tra gli incontri e le visioni. È un lavoro di messa in ordine, quello di Monika Willi, che se da un lato mostra una preoccupazione finanche eccessiva a rendere leggibile il caos delle immagini (come se avessimo per forza bisogno di una guida…), dall’altro cerca di rispettare i presupposti del film, quell’apparente assenza di metodo e di scopo del lavoro, quella sensazione di processo non compiuto, che sta a metà tra la tentazione bulimica dell’accumulo e il rigore selettivo dell’intuizione, tra l’epifania del momento rivelatore e il flusso indistinto del reale. Perché Glawogger non gira indiscriminatamente, sceglie in base al rigore misterioso dell’ispirazione e dell’interesse. Come racconta bene Alfredo Covelli, suo producer in Italia. “Siamo partiti da Brindisi, ma in Puglia Michael non trovava nulla di interessante, tutto sembrava ormai piegato a una logica da Film Commission” – a parte quella scena dello stormo di uccelli in formazione libera e variabile di fronte all’Hotel Eden, ripresa proprio a Brindisi. “Siamo risaliti, girando a caso. Arrivati in Campania, ci siamo fermati ad Apice Vecchia, in provincia di Benevento, ai confini con l’Irpinia, paese abbandonato dopo il terremoto dell’80”. E proprio tra le case di Apice Vecchia, sventrate dal sisma e dal tempo, eppure in qualche modo rese inviolabili dalla loro dimensione fantasma, Michael Glawogger trova una delle folgorazioni illuminanti del suo viaggio. Quell’ossessione della maceria, che racconta non solo la dissoluzione delle cose ma anche una persistenza intangibile, la loro capacità di durare come residuo vitale, segno del passato e speranza del futuro.

Davvero Untitled è un film sulla scomparsa, che sembra seguire il desiderio intimo di Glawogger di perdere la propria individualità nel flusso indistinto del mondo, come raccontano magnificamente quelle brevi frasi deliranti che accompagnano le immagini di Harper (e torna così il mito del documentarista che smarrisce il suo sguardo nell’adesione al reale?). Ma è ancor più un film che, come da programma, rimanda il senso della fine oltre i limiti smarginati del testo. E perciò si aggrappa a tutti quei luoghi di confine in cui l’ordine non c’è più o non c’è ancora, in cui le formazioni sociali sono fluide e multiformi (come gli uccelli in volo), in cui le regole istituzionali e le forme del controllo hanno ceduto al caos e alla deriva, aprendosi sulla voragine dell’inferno ma anche alla libertà dell’invenzione, di una progettualità difforme, oltre le prospettive della pianificazione geometrica, economica, burocratica. Sono quei luoghi in cui l’idea dello spazio si salda a quella del tempo. Se non esiste più il mito di un (Hotel) Eden incontaminato, se questa è terra di rifiuti e di detriti, di plastiche che invadono la pianura e inquinano il mare, è pur vero che ci sono alberi che si mantengono vivi nel deserto, ci sono uomini che vivono al buio e inventano la luce, che giocano a calcio con una gamba sola. È tutto un movimento che parte dal difetto. Il senso della deriva e dello smarrimento ritrova l’infinita virtualità del vuoto, tutte le mutevoli forme potenziali della realtà in trasformazione. Drifting. Verrebbe da fare un parallelo con il bellissimo naufragio di Helena Wittmann. Ma qui non c’è lo schermo bianco dell’oceano. L’inquadratura è fin troppo piena, è satura di presenze, umori, colori, suoni. Ma il film non finito resta senza titolo e senza sigillo, aperto da tutti i lati. E ogni cosa può muoversi liberamente dentro e oltre questo spazio imperfetto. Come il nostro sguardo, che attraversa tutti i buchi neri per seguire la sua unica, personalissima via.

 

Titolo: Untitled

Regia: Michael Glawogger e Monika Willi

Distribuzione: ZaLab

Durata: 105’

Origine: Austria, 2017

 

 

 

 

 

 

 

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