#Venezia74 – Manhunt, di John Woo

Dietro l’apparenza scanzonata, leggiamo i segni dolorosi dell’esilio di un regista senza più patria, costretto a ripensare la sua posizione nell’industria e il senso del suo cinema. Fuori concorso

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C’è qualcosa di strano e di eccessivo nelle immagini di Manhunt, il ritorno all’action di John Woo, dopo i grandi drammi storici, i wu xia e i regni in battaglia. Il digitale della Red Epic Dragon (grande nome da cappa e spada) di Takuro Ishizaka, il direttore della fotografia, sembra quasi aprirsi alla terza dimensione, presagirla, cercarla nella pienezza volumetrica dei corpi che si staccano dal fondo o nelle traiettorie dei movimenti che squarciano la bidimensionalità dello spazio. Ecco, quest’apparente bombatura dell’immagine, questa specie di iperrealismo che gonfia la trama visiva del film irrompe con uno slancio aggettante e un effetto straniante nel cinema di John Woo, che non ama il 3D, come ripete spesso. Ma del resto, i suoi film hanno sempre fatto dell’eccesso, nello stile e nella narrazione, una delle loro caratteristiche essenziali: i ritmi che vanno dalla ridondanza sacrale dell’epica alla velocità dell’azione, la messinscena che raggiunge una sorta di pienezza barocca nella rappresentazione della violenza, il racconto di sentimenti che si spingono ben oltre i limiti del mélo, seppur mitigati dal senso dell’ironia… Di sicuro lo sguardo di Woo è rimasto sempre più affine alla linea densa, carnale, materica del cinema hongkonghese, rispetto all’altra direzione più rarefatta e astratta (spirituale se vogliamo). Più Chang Cheh che King Hu, se vogliamo risalire al tempo dei padri titanici. Passione e sangue, arti mozzati e occhi accecati, il boato distinto, minaccioso, del proiettile in testa… Ovviamente la distinzione è forzata, se si pensa a come i confini tra una linea e l’altra sfumino nell’ibridazione costante dei generi e delle forme e nella suprema tendenza alla stilizzazione di un cinema che tutto vuole essere, fuorché “realista”. Ecco, di questa stilizzazione, John Woo è sempre stato uno dei più consapevoli maestri. Al punto da trasformare gesti e situazioni in evidenti segni di distinzione, veri e propri marchi: le due pistole in mano, le sparatorie che si aprono in coreografie mozzafiato, le colombe e le madonne spaccate, i ralenti, fino al culmine di quei fermo immagine che congelano la frenesia action in una sottolineatura emotiva o una presa di posizione morale.

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manhunt-image-2In Manhunt John Woo rende omaggio proprio a tutti questi segni, in una specie di riepilogo accelerato della propria carriera. Le mitiche colombe che deviano il corso delle cose, gli stop frame, le battute ammiccanti (for a better tomorrow), i rimandi interni da buddy movie (il poliziotto e il ricercato che diventano amici come in The Killer)… c’è di che mandare in visibilio i fan della prima (e della seconda) ora. Del resto l’intero progetto, sin dal titolo, rimanda a un film di Jun’ya Sato del 1976, protagonista la buonanima di Ken Takakura, uno degli attori preferiti di John Woo, “mio eroe da quando vidi alla metà degli anni ’60 un film di gangster che lo vedeva protagonista”. E che ci si muova in un mondo di secondo grado, dominato da una religione cinefila, è chiaro sin dall’inizio, dalla prima scena in cui ci si ritrova a parlare di vecchi film e di vecchi supporti in dvd.

manhunt2Ah, il cinema di una volta, la nostalgia… John Woo decide di scherzarci su. Le due donne dell’incipit si rivelano quasi subito delle killer professioniste, in uno spiazzamento ironico, quasi menefreghista, che copre tutto l’arco che va da Tarantino a Takashi Miike. E per tutta la durata di Manhunt, Woo sembra non prendere troppo sul serio quest’intricata storia di industrie farmaceutiche corrotte, di omicidi per interesse, false piste, di nemici con superpoteri alla marvel movie, di innocenti perseguitati e poliziotti in cerca di verità. Eppure, nonostante questo tono scanzonato che riporta ai tempi di Once a Thief, nonostante la sicurezza dello stile e il luccichio della confezione internazionale (con il Masaharu Fukuyama di Kore-eda, tra gli altri) rimane una profonda sensazione di disagio, una specie di disturbo di trasmissione che fa tutt’uno con la pesante nettezza volumetrica dell’immagine “elettronica” di Manhunt. Leggiamo i segni dolorosi dell’esilio di un regista senza più patria, che, da Hong Kong agli Stati Uniti, dalla Cina continentale al Giappone, è costretto a ripensare, film dopo film, il suo posizionamento nell’industria, ma soprattutto il senso del proprio fare cinema. Perché è proprio su questo punto lo sradicamento più tragico. Dietro l’ironia, quell’aria da gioco concitato e spensierato, c’è la sensazione che Woo non abbia più fede nell’action, nella sua tenuta epica ed emotiva, nella sua portata politica e morale. Il genere è ormai impossibile, lo abbiamo detto più volte, se non per la nostalgia dei vecchi arnesi che non si arrendono allo strapotere del trucco. John Woo di questa nostalgia apparentemente non vuol saperne e perciò, sebbene mantenga la forma, rinuncia alla carne. Il suo addio è già avvenuto. Ma dire addio all’action vuol dire rimettere in discussione tutta la vena più viva e fertile della propria esperienza, il principio di ogni scena possibile. Manhunt resta così un film di passaggio, che lascia un’ombra inquieta su un grande autore e su tutti noi. The Crossing

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