#RomaFF13 – Green Book, di Peter Farrelly

Farrelly è in grado di attraversare tutte le questioni più urgenti che infiammano oggi le strade degli USA e le immagini del nuovo cinema black, con il piglio uptempo del road movie più classico

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(L to R) MAHERSHALA ALI and VIGGO MORTENSEN star in Participant Media and DreamWorks Pictures' "Green Book." In his foray into powerfully dramatic work as a feature director, Peter Farrelly helms the film inspired by a true friendship that transcended race, class and the 1962 Mason-Dixon line.

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“Tu eri l’unico a poter scegliere se stare fuori o dentro”, sibila ad un certo punto il pianista Don Shirley all’autista e fattivamente guardia del corpo italoamericano che lo sta accompagnando nel suo tour negli stati del Sud, Tony “Lip” Villalonga. Decidere se stare dentro o fuori è da sempre il cruccio principale del cinema dei Farrelly, anche ora che i due fratelli sembrano aver deciso di intraprendere strade separate, con Peter impegnato già dall’anno scorso nella serie Loudermilk sul rehab di un Ron Livingston alcolizzato, e Bobby al lavoro in solitaria sulla commedia romantica One night Stan.
Restare fuori dalla soglia come sempre fanno, per scelta, per forza o per “resistenza passiva”, gli eroi dumb and dumber del cinema dei Farrelly ha però un peso decisamente diverso quando sei un immigrato calabrese e un afroamericano in giro per le regioni meno progressiste degli States nei primi anni ’60, poco prima che a Dallas un proiettile vagante decida che l’America non è ancora pronta a certe aperture.
I’ll never go back to Georgia, Dizzy Gillespie lo scandiva più volte con decisione intonando Manteca a Newport proprio in quel periodo, e quell’intro sembra ritmare tutto il film di Farrelly, in grado di attraversare tutte le questioni più urgenti che infiammano oggi le strade degli USA e le immagini del nuovo cinema black, con il piglio uptempo del road movie più classico.

Magia di uno sguardo che non si ferma mai per un’inquadratura di troppo (a dimostrazione di quanto si poteva già intuire da alcune regie più composte dei fratelli in teoria più volgari d’America, come il loro capolavoro Lo spaccacuori), non ha bisogno di sottolineare le occhiate dei neri che si stanno spaccando la schiena sui campi di lavoro al passaggio della cadillac di Don Shirley guidata da un bianco, né di una parola in più sull’omosessualità del musicista: “ho lavorato per tutta la vita nei club di New York, so che viviamo in un mondo complicato”, allarga le braccia Tony Lip. Siamo in quegli anni kennediani in cui Norman Mailer dà alle stampe il suo fondamentale The white negro, il pamphlet in cui traccia l’identikit degli hipster di prima generazione, affascinati in egual misura sia dalla coolness degli artisti afroamericani, da cui mutuare look e attitude, che dalla ribellione without a cause degli psicopatici, vicini alla sensibilità solitaria e anticonformista del beatnick.

E il Tony Villalonga di Viggo Mortensen è senza ombra di dubbio un latente psicopatico, abituato a risolvere qualsiasi discussione con improvvisi, perentori scoppi di violenza, e dal rapporto non proprio pacificato con il cibo e l’autorità: ecco, si potrebbe dire che l’America delle grandi esperienze culturali della seconda metà dei ’60 nasca proprio nell’abitacolo di quell’automobile, tra un secchiello di pollo fritto KFC (mangiato in Kentucky!) e un’incisione di Little Richards.

Quando l’autista che ha sempre vissuto nel Bronx con l’intera famiglia e il ricco pianista con loft esoticheggiante proprio sopra la Carnegie Hall ingaggiano un battibecco su chi sia “il più negro” tra i due, senti rinnovarsi ancora una volta la profonda necessità di questo cinema, di queste forme non meno pulsanti e vitali dell’imprescindibile episodio di Ugly Delicious di David Chang sul fried chicken (che è un piccolo manuale di format “politico” contemporaneo non meno di Michael Moore, detto tra parentesi).

Al di là delle istanze che scuotono l’ennesimo buddy buddy della carriera di Peter Farrelly, il film è anche, e ancora una volta, una lezione luminosissima di grammatica della comicità, in cui il regista si serve dell’incredibile fisicità di un Mortensen apertamente deniresco per approntare un nuovo sabotaggio delle messinscene cerimoniose della discriminazione perbenista, dai rinfreschi con le tartare nouvelle cuisine ai ristoranti impomatati e razzisti, contro cui scatenare un armamentario di sketch distruttivi che tiene insieme la golden age del cinema brillante con la faccia tosta dei Landis e Hughes.
All’accettazione pietista della società “alta”, preferiamo ancora una bettola di periferia dove la band ha già pronto un pianoforte jinglejangle per la jam session, e il cenone del 24 dicembre tra le decine di invitati chiassosi a casa Villalonga, affamati degli sformati di Linda Cardellini. C’è chi impara a scrivere ed esprimersi “properly”, e chi che a Natale non è proprio possibile starsene da soli.

Per nulla a margine del discorso, Mahershala Ali si conferma qui, con modalità differenti da Moonlight ma in segno non opposto, il corpo-chiave della ridefinizione in atto sulla messinscena dei personaggi black nel cinema hollywoodiano di questi anni, intentata prima d’ora solo da un certo, incompreso e mai rifrequentato, Eddie Murphy “emancipato” dei primi anni ’90.

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