#David2018 – Qualità o crisi
Da questi premi il cinema italiano ne esce bene, ma ora deve capire come intercettare il pubblico. Se finalmente sappiamo che tipo di cinema fare, dobbiamo ancora ragionare su come farlo vedere
Dobbiamo ammettere che siamo piacevolmente sorpresi dai verdetti emersi ai David di Donatello. Un’edizione che sulla carta sembrava destinata all’anonimato istituzionale, complice anche il posizionamento in prima serata su Rai Uno – una sorta di ritorno al passato, dopo i recenti esperimenti dal format anglosassone targati Sky – si è rivelata aperta ai nomi nuovi del cinema italiano e generosa anche nei confronti delle opere più invisibili e autoriali. Sembrano lontani i tempi in cui film come La pazza gioia e Perfetti sconosciuti, forti anche di un successo di pubblico rilevante, vincevano il miglior film lasciando le briciole a opere nettamente più stimolanti e coraggiose come Non essere cattivo, Fiore, Indivisibili. E non c’è stato nemmeno l’asso pigliatutto come nel 2015, quando in un’annata particolarmente competitiva Anime nere vinse sette David ed ebbe la meglio su due dei migliori film italiani dell’ultimo decennio: Mia madre e Il giovane favoloso.
Quest’anno l’edizione sembrava destinata a essere dominata da Ammore e malavita, forte delle 15 nomination annunciate il mese scorso. Il musical dei Manetti Bros. ha vinto ma non stravinto, favorendo una equa ripartizione tra le opere firmate da cineasti cinematograficamente giovani e indipendenti come Jonas Carpignano, Susanna Nicchiarelli o il duo Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Anche l’attenzione ricevuta dal film d’animazione Gatta Cenerentola (miglior produttore e migliori effetti visivi) indica un cambio di marcia rispetto al passato. C’è forse il tentativo di valorizzare strade più audaci e meno scontate rispetto ai salotti borghesi che per molti anni sono stati i set privilegiati di commedie e poetiche d’autore. Probabilmente emerge anche il desiderio di intraprendere una dimensione internazionale più underground che commerciale. Nico, 1988 di Nicchiarelli – quattro riconoscimenti, tra cui la sceneggiatura originale firmata dalla stessa regista – e A Ciambra di Jonas Carpignano – miglior regia e miglior montaggio – sono ad esempio film solo parzialmente “italiani”. Cercano una strada e un linguaggio personali e poco legati a un immaginario nazionale. Piacciano o meno, intercettano tematiche generazionali e formali accomunabili a una cinematografia più estesa.