Respect, di Liesl Tommy

Presentato nella sezione Piazza Grande del Locarno Film Festival il film traccia un ritratto intimo di Aretha Franklin, dall’America in cui è nata fino alle platee che l’hanno accolta per il mondo

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Quale può essere il modo giusto per raccontare un’icona? Quali sono gli aspetti da considerare, quali sono quelli da scartare di un’esistenza, cosa racchiude il senso delle scelte? La linea seguita da Respect per entrare nel mondo di Aretha Franklin (ruolo affidato a Jennifer Hudson) parte dall’infanzia nella casa paterna, dalla memoria tracciata dai ricordi indelebili come la morte della madre, e da un trauma terribile di un abuso subito in tenera età. Una linea insomma ritmata su alcuni momenti chiave, la prima esibizione in pubblico, gli affetti, un clima pieno di note dentro un periodo di importanza cruciale per la questione razziale e dei diritti civili, di cui la cantante diventerà simbolo indiscusso fino alla morte.
Figura predominante della vita dell’artista è appunto il padre, interpretato da Forest Whitaker, pastore della chiesa battista di Detroit ed elemento di spicco del movimento di lotta contro la discriminazione, ed amico intimo di Martin Luther King. La sua presenza segna i primi passi della carriera di Franklin, cominciata con un contratto con la Columbia, logica conclusione di un percorso stabilito tempo prima, e nella sua chiesa la figlia apprenderà i principi del Gospel, un genere al quale resterà legata prima di rompere le catene ed esprimere tutta la estensione nel Blues e nel Soul, che come approccio spirituale non cade molto lontano.
In questo cammino verso la celebrità la regista analizza soprattutto le influenze dell’entourage, le sorelle, i produttori, ed i partners, pagina che merita un discorso a parte. Su quel rapporto pesa un’ombra, un demone, dal quale non è facile liberarsi, soprattutto in presenza di un maniaco del controllo o di un soggetto abituato ad alzare le mani come Ted White, una relazione tossica conclusa con un divorzio. Il film ad un certo punto prende una piega abissale, effettua una caduta a picco frastornato dai troppi bourbon sullo schermo, dalle botte, esce dal fracasso del successo per entrare in uno spazio intimo, impaurito, bisognoso di cure. Quella cura sarà ancora Dio, sarà riabbracciare un vecchio coro, sarà esibirsi in una chiesa di Los Angeles per registrare Amazing Grace, come raccontato dall’omonimo documentario postumo di Alan Elliott (con le riprese di Sydney Pollack), riesumato, neanche fosse fatto apposta, da un oblio dove era stato abbandonato per anni, anche lui resuscitato dal nulla, e presentato a Berlino nel 2019.

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Il lato personale incrocia il talento di una voce formidabile, trascinata su frequenze divine, umana rivelazione di un suono ultraterreno. Gioco facile inserire uno ad uno i grandi successi Think, Respect, (You Make Me Feel Like) A Natural Woman  hit inseguite con accanimento, un’ambizione, forse per raggiungere una notorietà che le avrebbe permesso di non abbassare più la testa davanti a nessuno, una musica sviluppata sull’emancipazione, una musica di lotta per le donne e per i neri, vittime dell’odio, e tematiche centrali dell’attuale cinema americano. La grazia del canto accompagna le immagini, la fa vibrare, sia provenga da una riunione di fedeli, sia provenga da uno studio dell’Alabama, di New York o di Los Angeles, da una stanza d’albergo, ne segue la gestazione, la crescita per tentativi, seguendo uno sbaglio prima che si trasformi in un’illusione.
Volutamente meno marcata è la descrizione dell’impegno politico di Aretha, espresso da una linea sottile ma continua negli anni, pronta a correre ad una chiamata per contribuire alla causa. La fedele ricostruzione d’epoca è particolarmente riuscita grazie al trucco ed ai costumi, eccezionale la cura dei connotati ad esempio soggetti ad invecchiamento, la sceneggiatura è ricca di dialoghi ma senza addentrarsi in un eccessivo didascalismo quando rievoca i motivi della protesta, resta soprattutto strutturata per evidenziare la volubilità dei personaggi, e nel caso della protagonista la presenza di un carattere ereditato dal padre, evidente quando all’apice dell’empireo artistico sembra averne assorbito il piglio autoritario ed un’indipendenza che al suo eccesso diventa indisposizione. La base drammatica è letteralmente immersa in un fiume carsico di performance sonore, ed anzi quella riserva di dolore è il contenitore dove prendere il materiale per costruire una scala verso i sogni, per toccare da vicino le stelle.

 

Titolo originale: id.
Regia: Liesl Tommy
Interpreti: Jennifer Hudson, Forest Whitaker, Marlon Wayans, Titus Burgess, Audra McDonald, Mary J. Blige, Hailey Kilgore, Marc Maron, Kimberly Scott, Tate Donovan
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 145′
Origine: USA, Canada 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3 (2 voti)

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