Il bandito, di Alberto Lattuada

Tragico e limpido, disperato e impetuoso, il terzo film del regista combina Neorealismo e gangster-movie. Solido nella struttura narrativa, con impennate improvvise come il finale.

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Ha lo sguardo sulla realtà del Neorealismo ma anche la cadenza di un gangster-movie. Torino come Chicago, avvolta nella notte. Volti che compaiono all’improvviso dall’ombra, illuminati dalla fotografia di Aldo Tonti. Il dramma è già nei loro occhi, filmato in modo impetuoso. Con Il bandito il cinema di Lattuada si stacca dalla dipendenza letteraria dei suoi primi due film, Giacomo l’idealista e La freccia nel fianco, anche se in quest’ultimo ci sono già delle derive mélo che si ispirano al cinema statunitense. C’è però anche la malinconia e la predestinazione di una vita già segnata del ‘realismo poetico’ francese precedentemente assorbita da Visconti in Ossessione e Franciolini in Fari nella nebbia.

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Dopo essere stati prigionieri in Germania, Ernesto (Amedeo Mazzari) e Carlo (Carlo Campanini) tornano a Torino. Per Ernesto però la felicità per essere finalmente rientrato in Italia dura poco. Trova la casa devastata, scopre che la madre è morta e la sorella Maria (Carla Del Poggio che viene diretta per la prima volta dal marito) è entrata nel giro della prostituzione. La sua unica consolazione è la fraterna amicizia con Carlo che ha potuto finalmente riabbracciare la figlia Rosetta. In seguito a una tragica morte, un omicidio e l’incontro con Lidia (Anna Magnani), una donna di mondo di cui diventa l’amante, inizia la sua ascesa come fuorilegge.

Le macerie non sono nelle città distrutte come nel cinema di Rossellini. Si vedono infatti solo all’inizio del film, guardate da Ernesto che afferma: “Qui c’è da lavorare fino al 3000”. Restano però fisse negli occhi dei protagonisti. Amedeo Nazzari ribalta la sua immagine nobile e frequentemente caratterizzata dalla rettitudine morale con quella di un criminale cinico e spietato dopo le avversità della vita e l’unico barlume di speranza è nell’immagine che vuole lasciare a Carlo e Rosetta. Lattuada entra visceralmente nella sua disillusione ma mette a fuoco anche le residue tracce di umanità: i regali che manda all’amico e alla figlia e la scena dove a Capodanno regala ai poveri il bottino di una rapina. A sua volta il cuore di Anna Magnani diventa freddo. La sua figura è cinica e opportunista. Non si ferma davanti a niente e non ha nessuno scrupolo a tradire.

In Il bandito è presente una profonda disperazione che caratterizza il cinema di Lattuada degli anni ’40. Si definisce anche in maniera compiuta il suo stile: l’attenzione per il dettaglio, i primi piani ravvicinati, il ritmo del cinema statunitense. Sotto questo aspetto Lattuada e Germi sono gli unici due cineasti che in questa periodo che ci si confrontano direttamente. Lo dimostra nel modo, per esempio in cui Il bandito e un altro film pressocché contemporaneo come Il testimone, filmano il mondo criminale seguendo la struttura classica del genere hollywoodiano.

La struttura narrativa solida – la sceneggiatura è stata scritta dallo stesso regista con Tullio Pinelli, Oreste Biancoli, Piero Tellini, Mino Caudana, Ettore M. Margadonna – viene accesa da scatti di regia improvvisi: la scena del ballo, il bicchiee gettato in faccia a Lidia con un impeto da perfido noir, la scena  in cui Ernesto cerca di portare via la sorella dal suo protettore con le ombre sulle scale e quel finale all’aperto, insieme tragico e limpido, tra i frammenti che restano di tutto il cinema di Lattuada dove morte e desiderio sono già inseparabili.

 

Regia: Alberto Lattuada
Interpreti: Amedeo Nazzari, Anna Magnani, Carlo Campanini, Mino Doro, Carla Del Poggio, Folco Lulli
Durata: 87′
Origine: Italia, 1946
Genere: drammatico/noir

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.4 (5 voti)

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