Shen Kong, di Chen Guan

Un ragazzo e una ragazza in una città in quarantena. È tutto qui il film, un “perder tempo”, una lenta e consapevole deriva che sembra l’unico senso possibile. Giornate degli Autori, #Venezia78

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È l’inizio della pandemia. Il mondo è come prosciugato. Una città deserta, Macao probabilmente, ma potremmo essere ovunque. Nel disastro e nel silenzio ogni luogo finisce per assomigliarsi. Un ragazzo e una ragazza si incontrano, vagano, giocano, fanno l’amore, tornano in strada. È tutto qui l’esordio al lungometraggio di Chen Guan, non c’è molto altro da dire. È un perder tempo, un giro a vuoto che serve a riempire i giorni e gli spazi, una lenta e consapevole deriva che sembra l’unico senso possibile nell’assurda inoperosità che si è impossessata del quotidiano. Li You e Xiao Xiao non hanno né direzione né meta. Le loro perlustrazioni tra le strade vuote non hanno scopo, se non in rari momenti, come quando, ad esempio, occorre procurarsi le mascherine che sono già introvabili. Ma nel clima di paura che avanza, tra distanziamenti, divieti, controlli della temperatura, i due ragazzi non mostrano timore. Vivono come in un parco di divertimenti, tutto è un’avventura, anche la cosa minima, più insignificante. Un karaoke, un giro in barca, una corsa in motorino, bruciare le pagine di un libro mentre si fa sesso, arrampicarsi su un albero in cerca di insetti, scrivere sulle pareti di una stanza o disegnare sulle vetrine di un negozio. Sembra proprio che, per loro, la quarantena sia solo il segnale amplificato di una condizione che prescinde dalla situazione contingente, una sospensione esistenziale da vacanza permanente. E difatti, mentre lo zio di Li You fa la predica, ricorda la necessità di un comportamento adeguato, di trovare uno scopo, i due fanno orecchie da mercante, continuano a scherzare. Semmai, il lockdown è, paradossalmente, l’occasione per un incontro che non sarebbe stato possibile altrimenti, crea lo spazio necessario al contatto. Ma è solo una parentesi. A poco a poco il disagio torna, l’incertezza dell’oggi e del domani, un senso di precarietà che è l’orizzonte grigio della giovinezza. Scatti di rabbia, un pianto, un incidente voluto, una separazione. Alla fine, nulla tiene.

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Chen Guan trova il punto di forza nel minimo essenziale, come se accogliesse il vuoto e lo attraversasse in un movimento inconcludente. Nella narrazione di Shen Kong non c’è direzione, una traiettoria che porti al futuro. Non c’è storia, nella misura in cui si dovrebbe tendere a una fine o a una trasformazione. C’è un racconto che va alla deriva, verso una risoluzione che non è una soluzione. Ma, nelle immagini, nei piani lunghi, nei movimenti, sembra di sentire l’eco degli unknown pleasures di Jia Zhang-ke, di uno sguardo che sa inquadrare e trasfigurare il reale. Per trovare la poesia che si nasconde tra le cose, tra le incrostazioni dei luoghi, tra i tempi morti, quel segreto fantastico che riposa persino sotto l’uniforme e l’insignificante. Uno sguardo che cerca una reazione, una possibilità di libertà anche nel vuoto.

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