Ito, di Satoko Yokohama

L’esilarante coming-of-age omaggia il Giappone rurale, rileggendo il percorso formativo della protagonista alla luce del suo spirito tradizionalista. Presentato al Japanese Film Festival online

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Sin dalle prime inquadrature Ito rende manifesta la volontà di veicolare le regole diegetiche alla base del mondo della protagonista, presentando un incipit significativo, tutto giocato sulla discrasia verbale tra il giapponese standard – quello nazionale, “che si ascolta in televisione” – e il dialetto Tsugaru, tipico della prefettura di Aomori (nel Giappone settentrionale, dove si ambienta la storia). Un contrasto non solo linguistico, ma soprattutto culturale, che in termini di immaginario asserisce la lontananza ricercata dal film di Yokohama nei confronti del cinema nipponico tradizionale, da cui prende le distanze. Rispetto alle narrazioni Tokyo-centriche, che operano secondo codici e regole storicamente definiti, declinati nell’atmosfera (e nel clima) culturale della capitale, Ito segue – per necessità di ambientazione – paradigmi differenti, funzionali ad una (fedele) rappresentazione estetica del Giappone rurale.

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Senza inventare nulla, Ito dialoga apertamente con i codici del cinema indipendente Tokyo-centrico – in questo caso del coming-of-age movie, il racconto di formazione – per rileggerli alla luce di un orizzonte culturale diametralmente diverso, che necessita di un approccio alternativo, non più incentrato sulla messa in scena della modernità, ma su una sua contaminazione con le radici etniche tradizionali. Diversamente dalla capitale nipponica, vero (e unico) centro propulsivo da cui muove il progresso culturale, economico e sociale del paese, la città dove vive la giovane Ito, Aomori, è un luogo aperto, rurale, profondamente ancorato alle tradizioni locali. Un microcosmo pacifico, dove il vento del cambiamento arriva sempre in ritardo, per declinarsi come luogo a sé stante. Ed è in questa terra distante dalla realtà del paese che Yokohama iscrive il percorso di crescita di Ito, la cui alienazione si manifesta secondo canoni ambigui, lontani dalle convenzionali immagini di disagio giovanile. Rifiutando le dinamiche con cui il cinema giapponese contemporaneo interpreta lo sfasamento esistenziale dei giovani – qui non c’è nulla della feroce rabbia di Blue Spring (Toshiaki Toyoda, 2001), o della solitudine eterea di All About Lily Chou-Chou (Shunji Iwai, 2001) – il film propone una visione più distensiva dell’adolescenza, con il percorso formativo della protagonista che si articola all’insegna della conciliazione, e non della gravitas. Vivendo in una cittadina rurale, lontana dalla pressione sociale e dal competitivismo radicale della capitale, Ito esprime le proprie emozioni in termini propriamente diversi. Il senso di alienazione diviene qui il mezzo con cui si materializza il carattere stravagante della ragazza, che tra atteggiamenti goffi e sguardi stralunati, cerca di superare il proprio conflitto – è molto introversa, avendo perso la madre in età infantile – con estrema levità. Il suo essere costantemente fuori luogo dà vita a sequenze esilaranti – cade continuamente, prova imbarazzo nelle conversazioni, fa uso di ambigue cadenze dialettali – in una espressione di incertezza esistenziale più prossima alla comicità slapstick, che al cinema giovanile Tokyo-centrico.

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In continuità con lo spirito tradizionalista della città di Aomori, Ito non solo rievoca il passato, ma ne asserisce la centralità risolutiva in relazione al percorso della protagonista. Per consentire al personaggio di superare gli ostacoli interiori – ella ha difficoltà a relazionarsi, ma desidera l’affetto sia degli amici, sia del padre, con cui litiga – la regista associa il conflitto della ragazza al recupero dei valori tradizionali, cornice unica in cui materializzare la catarsi. È solo grazie al suono dello shamisen – lo strumento a corde della tradizione teatrale giapponese – che Ito è in grado di superare le proprie difficoltà, e ricostruire i legami famigliari offuscati dal lutto. Un approccio narrativo coerente, che riesuma la ritualità per omaggiare la cultura di una terra dimenticata, dove la rimemorazione del passato è il veicolo ideale attraverso cui rappresentare lo stato presente dell’emotività.

Titolo originale: Itomichi
Regia: Satoko Yokohama
Interpreti: Ren Komai, Etsushi Toyokawa, Mei Kurokawa, Mayuu Yokota, Ayumu Nakajima, Kosaka Daimao, Shohei Uno
Durata: 116′
Origine: Giappone, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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Il voto dei lettori
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