Humain, trop humain, di Louis Malle

Malle entra in una fabbrica della Citroën per raccontare, a modo suo, il lavoro operaio. Senza ipotesi programmatiche, un film “tutto cose”. Riproposto al Doclisboa

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Nel 1972, in piena stagione di contestazione e di lotte sociali, Louis Malle decide di girare un documentario sul lavoro operaio in una fabbrica della Citroën a Rennes. Parla con i dirigenti, evidentemente intenzionati a far bella figura, orgogliosi dei mezzi tecnologici all’avanguardia dei loro impianti produttivi. E ottiene, senza problemi, il permesso di girare. Anche perché nelle sue intenzioni non c’è l’idea di “far parlare” gli operai o le rappresentanze sindacali. Quindi, apparentemente, non c’è pericolo di contestazioni alla proprietà. Così Malle entra in fabbrica, con la sua troupe ridotta al minimo (quella che già l’aveva accompagnato in India nel 1968, per il documentario Calcutta) e un apparato leggero, una macchina da 16 mm Éclair e un magnetofono Nagra. E riprende per 15 giorni.

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A cose fatte, il film è diviso in tre parti. La prima segue le varie fasi di realizzazione, fino al prodotto finito, alle automobili pronte a essere immesse sul mercato. La seconda parte entra nel Salone dell’auto di Parigi, dove i compratori, i curiosi e gli appassionati provano i nuovi modelli, contrattano, chiedono e sognano di essere finalmente parte del grande circo dei consumi. La terza torna in fabbrica, per scendere nel dettaglio della lavorazione, fino alle operazioni più minute della catena di montaggio.

Nessun commento, nessun’intervista o testimonianza. Nessun suono che non sia “meccanico”, concreto, materiale. Solo una musica d’introduzione, quasi una partitura sacra, che accompagna al tempio della fabbrica. Un film “muto”, praticamente, se non nella sezione dedicata al Salone dell’auto, dove però le chiacchiere da mercato dei venditori e dei compratori si perdono in un rumore di fondo, indistinto. Tolta la parola, non restano che i volti, i corpi, la materia e i gesti. Manualità e tecnica. “Tutto cose”

Quando il film esce in sala, nel 1974, non incontra una gran risposta da parte del pubblico. Ma, soprattutto, suscita le critiche della stampa più intransigente e ideologicamente schierata, che giudica il film insufficiente, incapace di far emergere gli “orrori” della fabbrica e le miserie della condizione operaia. Anche Serge Toubiana, dalle pagine di Libération, si scaglia contro il film: “A quale prezzo Louis Malle è riuscito a convincere la dirigenza Citroën a fargli filmare i rapporti umani in fabbrica? A costo della repressione totale, dell’occultamento (…) dei rapporti di produzione capitalistici, della gerarchia, del dispotismo della fabbrica”.

Eppure, la forza di Humain, trop humain è proprio nella capacità di Malle di tenersi lontano da qualsiasi tentazione di intervento diretto, dalla retorica della contestazione, da ogni tesi programmatica, precostituita. Osserva e costruisce il senso attraverso la successione delle immagini e le connessioni del montaggio. E arriva a vedere più a fondo, davvero. A mostrare questa aberrante trasformazione meccanica del movimento umano, che emerge dai dettagli di un piede che batte al ritmo, dall’espressione imbambolata, completamente neutralizzata dei volti. O, ancora, dalla frenesia performativa di qualche operaio, tutto preso dall’esibizione dell’efficienza e della velocità. Sì, sembra anche esserci qualcosa di “primitivo” in questa fabbrica del 1972, rivista oggi. Una tecnologia pesante e limitata, dove accanto alla macchina è ancora essenziale la sapienza di un gesto o la pura e semplice fatica della mano. E c’è persino una delicatezza negli sguardi e nelle complicità che nascono tra gli operai, tra gli uomini e le donne che si incrociano tra i reparti. Ma Malle non di indulge in romanticismi o in nostalgie, ovviamente. Resta il fatto che non ci sia mai gioia e soddisfazione in un lavoro come questo. Tutto è costretto in un ritmo e in un grigiore uniformi. Al di là dei riflessi lucidi dei metalli o dallo smalto delle vernici. Tutto è uguale, monotono e indifferente. Come i tanti pezzi disposti in fila. Come il volto da fantasma del giovane operaio addetto alla cromatura del telaio, che sembra quasi un astronauta smarrito tra le nubi gassose di un pianeta lontano e solitario.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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