CANNES 55 – Piccolo, fragile Woody

Il Festival apre con “Hollywood Ending”: Woody Allen rasenta l’ingenuità, ma fa tenerezza la semplicità con cui si mette in scena senza pudore, parlando di sé, delle sue delusioni, dei suoi sogni infranti, dei rimpianti e dei desideri impossibili con una franchezza che sovrasta le scarse risate offerte da una commedia crepuscolare come questa.

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CANNES – Il 55.mo anno si apre nel cuore di New York, sotto il segno di Woody Allen, in un finale hollywoodiano che stinge in rosa la microcommedia chiamata ad interpretare l’ouverture della kermesse cannoise. E’ anche vero, del resto, che l’ombra di New York e del terrificante “Ground Zero” delle Twin Towers aleggia da ogni parte in questo megabunker del cinema che è il Palazzo del Festival: controlli all’ingresso di ogni sala, borse e borsette indagate con educata circospezione dagli addetti alla sicurezza, metal detector poco voluttuosi che ti sfiorano il corpo, poliziotti con cani da guardia che percorrono i corridoi: insomma la caccia al terrorista è aperta e Cannes non ha certo voglia di imparare ad amare la bomba… Ma questo va da sé: quello che si è aperto oggi è pur sempre uno dei più grandi eventi mediatici dell’anno e volenti o nolenti il clima che tira deve essere circospetto.
Tutto questo non deve però farci dimenticare che l’evento davvero speciale di questa giornata d’apertura del festival di Cannes è per sempre lui, il vecchio Woody, che sulle sue piccole spalle deve tenere il peso di una serata di gala alla quale di sicuro avrebbe rinunciato, se non fosse stato che il suo “Hollywood Ending” necessita d’un buon lancio europeo e la platea di Cannes si presta volenieri.

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Piccolo piccolo, fragile e trasparente, quasi di carta velina, questo nuovo lavoro di Woody Allen non è che la conferma della tensione sempre più minimale che il suo cinema va prendendo. Docile e resistente nel maneggiare i tic e i vezzi coltivati nel corso della sua carriera, sempre più dentro il suo personaggio di sconfitto cronico che usa le sue patetiche debolezze come armi improprie per farsi accettare dal mondo: è il gioco che gioca anche Val Waxman, il regista newyorkese che Woody interpreta in “Hollywood Ending”, ennesimo alter ego di un autore che ormai ha imparato a riflettersi in quello specchio delle sue angosce che sono i suoi film. Vincitore di due Oscar ma caduto in disgrazia per il suo pessimo carattere, questo piccolo uomo di cinema apprezzato da molti e allontanato da tutti, si è ridotto a girare spot e quando si trova tra le mani l’occasione per rilanciare la sua carriera non sa fare di meglio che metterla a rischio. Quando infatti, grazie all’intercessione della sua ex-moglie, riesce ad avere la scrittura per dirigere un nuovo film, la sua natura ipocondriaca gli fa insorgere una cecità psicosomatica che lo costringe ad andare sul set da non vedente, senza del resto poter rivelare nulla a nessuno, se non al suo agente e poi alla stessa Ellie. Lo spunto è semplice ma a suo modo geniale, e in mano a qualcun altro avrebbe anche offerto l’occasione per un’efficace sortita, ma da Woody non c’è da attendersi capriole e “Hollywood Ending” procede verso il finale con un garbo e una semplicità disarmanti. La sceneggiatura è fragile, le situazioni comiche scarseggiano e in molti casi appaiono telefonate, l’evoluzione in rosa è nell’ordine delle cose, i personaggi sembrano galleggiare su eventi che non gli appartengono… Fosse solo un po’ più consapevolmente fragile, questo film potrebbe anche essere un piccolo capolavoro, invece gli manca solo la forza di essere qualcosa di meglio e alla fine si spegne per mancanza d’ossigeno. Woody Allen rasenta quasi l’ingenuità, ma è pur vero che fa tenerezza per la semplicità con cui si mette ogni volta in scena senza pudore, parlando di sé, delle sue delusioni, dei suoi sogni infranti, dei rimpianti e dei desideri impossibili con una franchezza nutrita da una vaga poesia che sovrasta le scarse risate offerte da una commedia crepuscolare – o forse solo stinta – come questa.

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