Oltre alle gambe c’è di più? 11 donne a Parigi, di Audrey Dana

Commedia a tratti divertente che si esaurisce nel dispositivo ludico-narrativo azzerando le potenzialità alla base del progetto. Le donne sono ridotte a macchiette uscendone oltremodo penalizzate

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Certe pellicole, come certe battute, non faticano a imprimersi nella memoria dello spettatore. Vedendo Donne di Cukor si resta meravigliati dalla sua modernità. Non tanto perché è interpretato da un cast interamente femminile quanto per la sensibilità e l’irriverenza con cui il regista nel 1939 guardava quel mondo squarciando i veli di apparenza che lo rivestivano (pensiamo alla splendida sequenza della sfilata di moda, l’unica a colori). E lo faceva già nei titoli di testa dove ogni attrice era abbinata a un animale (Norma Shearer a un cerbiatto, Joan Crawford a una tigre, Rosalind Russell a un gatto, l’esuberante Mary Boland a una scimmia), segno della loro natura che veniva indagata nella sua complessità.

Più di sessant’anni dopo, François Ozon compie un’operazione per alcuni versi simile portando sul grande schermo le icone più significative del cinema francese: Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Béart, Virginie Ledoyen, Danielle Darrieux, Ludivine Sagnier. In 8 Femmes è evidente l’omaggio a Cukor, a cominciare dal ginepraio che il regista mette in scena (nei titoli di testa i nomi delle attrici sono accompagnati da immagini di fiori). Qui, però, la satira cede il passo a una visione lirica dell’amore, in senso letterale e simbolico, che libera pulsioni e cariche erotiche represse (le protagoniste si raccontano attraverso una canzone).

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11 donne a Parigi

Arriviamo così a 11 donne a Parigi, primo lungometraggio diretto dall’attrice Audrey Dana che prova a descrivere, usando la metafora del tempo, l’affascinante e variegato universo femminile costellato da mogli in crisi che vengono tradite (Marina Hands) o che cercano una valvola di sfogo dal marito e dai figli (Géraldine Nakache); amanti passionali (la stessa Dana) e amiche maldestre (Laetitia Casta); donne in carriera che nel privato sono sole (Vanessa Paradis) o che non accettano di invecchiare (Isabelle Adjani).
Senza voler confrontare l’esperienza di un’esordiente con quella degli autori citati, è interessante riflettere sulle modalità di rappresentazione e sul linguaggio utilizzato: la commedia è un genere rischioso che per funzionare ha bisogno di una controparte drammatica o di una forte presa di coscienza. In questo caso tutto si esaurisce nel dispositivo ludico-narrativo azzerando le potenzialità alla base del progetto. L’intento di Dana era infatti di restituire al gentil sesso un’aura autentica e profonda. Peccato che le situazioni, quasi al limite del reale, siano costruite in maniera tale da suscitare una risata anche quando non se ne sente l’esigenza; ciò riduce i personaggi a una serie di macchiette che parlano e si muovono meccanicamente e non in virtù di una particolare disposizione d’animo.
Certo, il film è a tratti divertente e scorre senza intoppi, nonostante le numerose storie che si intrecciano. Ma la donna ne esce oltremodo penalizzata, ingabbiata in quegli stereotipi che gli altri due film sapientemente sfruttavano o stravolgevano raggiungendo esiti strepitosi.

 

 

Titolo originale: Sous les jupes des filles
Regia: Audrey Dana
Interpreti: Isabelle Adjani, Alice Belaïdi, Laetitia Casta, Audrey Dana, Julie Ferrier, Géraldine Nakache, Vanessa Paradis
Distribuzione: Microcinema
Durata: 118’
Origine: Francia 2014

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