ASIAN FILM FESTIVAL 2011 – Sacrifice, di Chen Kaige (Fuori concorso)
L’ultimo film di Chen Kaige si inserisce pienamente nella poetica del regista cinese che ha sempre bisogno di una storia dalle forti tinte per impiantare il suo cinema. Questa volta la vicenda del suo antieroe è calata dentro un struttura cinematografica perfino troppo grande per un uomo solo. Una struttura narrativa dispersiva che fa perdere di vista i moti dell’animo. Un cinema che rischia poco o nulla e che come gli altri suoi film diventa comunque un piccolo evento.
Il cinema di Chen Kaige rappresenta per gran parte del pubblico una sorta di archetipo del cinema cinese. Il suoi furono tra i primi film ad arrivare in Italia dal grande paese orientale, se si escludono i kung-fu movie degli anni ’70. Ma ogni film di Kaige, al di là del valore del suo cinema, diventa un piccolo evento, si forma attorno una sorta di attesa, di cui tutti si è partecipi, salvo poi ricredersi del tutto o parzialmente.
Kaige è un autore che ha bisogno di una storia dalle forti tinte per impiantare il suo cinema. Da La vita appesa a un filo, in cui si narra del suonatore cieco che spera di riottenere la vista quando avrà spezzato la millesima corda del suo strumento, a Addio mia concubina o, ancora, a L’imperatore e l’assassino, Kaige si serve del plot per amplificare i toni drammatici che sono quelli che preferisce. Il risultato è quello di un cinema che sempre l’aria del colossal, sempre drammaticamente acceso, che attinge alla storia della Cina facendo diventare universali i suoi racconti e questo è forse il suo pregio maggiore.
Nel bene e nel male non sfugge a queste caratteristiche anche quest’ultimo film Sacrifice che ha esordito sugli schermi dell’ultimo festival di Berlino.
Chen Ying è un dottore di corte che durante il sanguinoso colpo di stato di Tu’an Gu che da dignitario di corte si appropria del potere con spietata freddezza, salva il bambino della dinastia degli Zhao. Tu’an Gu ha infatti deciso di sterminare la dinastia dei regnanti compreso l’ultimo nato venuto al mondo durante la sua sanguinosa ascesa al potere.
Chen Ying salva il neonato e per fare questo deve sacrificare il proprio figlio nato in quegli stessi frangenti. Educherà il
figlio adottivo che chiama Cheng Bo, all’ombra del despota, ignaro che il bambino sia l’ultimo degli Zhao. La verità sarà rivelata al figlio dal padre solo al tempo debito in modo da suscitare i sentimenti di vendetta del giovane verso il sanguinario tiranno e fargli vivere una vita peggiore della morte.
Gli avvenimenti, benché rimaneggiati, sono realmente accaduti e costituiscono una parte dell’opera storiografica forse più antica della Cina, lo Shi ji. Opera colossale il cui titolo tradotto significa “Memorie storiche” scritta da Sima Quian vissuto fino al 90 a.c.
Chen Ying è un antieroe e il film ruota tutto attorno alla sua dimessa figura, ruota attorno, anzi addirittura ne assume il titolo, al suo sacrificio che è quello di fare passare il suo di figlio come erede della dinastia tanto odiata da Tu’an Gun che come un nuovo Erode lo uccide personalmente insieme alla madre. Questa originaria decisione cambierà la vita di Chen Ying la cui esistenza sarà dedicata alla vendetta nei confronti dell’assassino di suo figlio e sua moglie.
Kaige narra la vita di quest’uomo dentro un cornice fastosa e da colossal, dentro un struttura cinematografica perfino troppo grande per un uomo solo. La vicenda umana perde di dimensione, si polverizza quasi, nell’attesa della vendetta del piccolo e poi del giovane Cheng Bo, mentre la figura di Ying suo padre putativo, si rimpicciolisce anche fisicamente per l’età.
Così dentro questa sfarzosa forma, adatta più ad una narrazione corale, coerente con il racconto della vita di un eroe, ma così inadeguata per quella di un antieroe, si consuma non troppo felicemente l’ultima fatica di Kaige. La dispersiva struttura narrativa fa perdere di vista i moti dell’animo di Chen Ying. Il suo travaglio interiore, nell’attesa della vendetta e nel ricordo del dolore per la perdita del figlio e della moglie, resta affidata solo al suo progressivo invecchiamento segno del tempo che si consuma e rende sempre più sbiadita la vendetta che arriverà anche se il suo desiderio non si eroderà con il tempo che trascorre. Kaige rischia poco o nulla poiché soddisfa la voglia di spettacolo, costruisce una narrazione piana e, in fondo, senza sorprese, quasi telefonata e in questo senso adatta a qualsiasi pubblico e in qualsiasi luogo.
La storia avrebbe potuto assumere una fisionomia pirandelliana e, nel contempo atteggiarsi come una tragedia shakespiriana, ma non sembra avere l’ossatura di fondo né per l’una né per l’altra. In fondo Kaige racconta una storia dolorosa che comincia con una nascita e finisce con una morte. Per vedere il vero dolore, per saggiare il gusto della vera vendetta bisogna attendere o rivolgersi altrove.