BFM39 – Dal Concorso: Pun Myesec (Full Moon) e Spirál

Dal Bergamo Film Meeting in corso in streaming i film di Nermin Hamzagić e Cecília Felméri, dal thriller satirico implacabile all’indagine sulla solitudine

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«Si dice abbia una forte energia che ci aiuta a guardarci nell’anima, per trovare pace e… dimenticare il male». La luna piena come simbolo di purificazione e speranza di rigenerazione. La Bosnia-Erzegovina come corpo malato da curare, sistema corrotto e scellerato. Per sineddoche ciò si riflette nella stazione di polizia in cui l’ispettore Hamza Pasic è costretto a rimanere mentre la moglie è in ospedale pronta a partorire. E nel contesto di una notte più luminosa delle altre, il protagonista sembra vedere finalmente il mondo che lui stesso sta alimentando, la perversione di un paese che ha perso ogni senso di dignità e vergogna. I colleghi che continuano a mentire, nascondere, a intascare soldi. Le intimidazioni, le ingiustizie, i soprusi.
La macchina da presa di di Nermin Hamzagić, regista di Pun Myesec (Full Moon), non abbandona l’uomo nemmeno per un secondo, per non perdersi i diversi passaggi del mutamento che sta avvenendo nella sua coscienza e sulla sua pelle. Decisivo è l’incontro con Muhamed, attempato venditore di palloncini ormai da tempo vittima di vessazioni da parte della polizia. Il climax finale è infatti dedicato a questo personaggio, il quale esplode in un j’accuse disperato ed esplicito contro l’agente Kerim (fra i più corrotti e violenti) quale prodotto involuto della guerra che lui aveva combattuto trent’anni prima. Un ottimo thriller, lucido e implacabile nella sua satira, anche se in certi momenti in bilico sul filo della retorica populista. Si salva nel sincero finale, dove il neonato annuncia il sogno di un paese possibile.

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A volte non si accetta che le cose finiscono e le persone partono. E allora il senso di colpa diventa tabù, la coscienza rimane sopita, e gli errori si ripetono sempre uguali. È ciò che accade in Spirál di Cecília Felméri, opera prima in lingua ungherese anch’essa in concorso al 39° Bergamo Film Meeting. Un film piccolo ma già maturo nel suo stile, che si apre con lo scorrere della camera capovolta sulla superficie del lago, avvertendo i misteri delle sue profondità. Bence e Janka sono una coppia non più giovane, ex insegnanti di città che hanno deciso di vivere nella proprietà che lui ha ereditato dal padre. Un genitore scomparso nel nulla proprio lì, «forse caduto in acqua, forse se n’è semplicemente andato, non lo so». Un’eredità morale, questa assenza di modelli, più forte di qualsiasi possibile relazione. La paura di scomparire in solitudine, senza lasciar segni, sembra essere l’ossessione che spinge il protagonista ad agire sempre in funzione di quella confort zone.
La compagna però non sente questo legale, anzi esprime fisicamente un disagio, forse proprio a causa dell’inquietudine che sente nell’uomo con cui aveva scelto di vivere. Mentre il ritorno in città potrebbe garantirle un’affermazione personale, o almeno una nuova serenità che lì le viene negata. Infatti quando lei viene a mancare sarà un’altra donna, ugualmente sola e alla ricerca di qualcosa di indefinito che per il momento prende la forma del ricordo dell’infanzia col nonno pescatore, a prendere il suo posto. La routine si ripete, e con essa le situazioni e i sentimenti. Ad esempio, entrambe hanno un ritardo che potrebbe significare un impegno, una famiglia con quell’uomo infondo ancora sconosciuto. Bence, da par sua, non si apre mai all’esterno: rappresenta forse l’egomania di un paese (l’odierna Ungheria) troppo teso all’isolamento per riuscire a guardarsi allo specchio. Nascondere i segreti in quel lago è davvero la soluzione?

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