CANNES 60 – "Mogari No Mori" (The Mourning Forest), di Naomi Kawase (Concorso)

E' l'ultimo meraviglioso sussulto del concorso. La giovane regista giapponese (rivelazione in passato con “Suzaku”, “Dance of Memory”, “Shara”), tra mille dubbi, unisce il cielo e la terra o meglio solleva la terra al cielo. Stupore della ragione: il rifiuto del passato è discendente, l'interiorizzazione del senso di colpa ascendente

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Ad est di Nara, antica capitale del Giappone, si trova la foresta di Mogari. Immerso nel verde c'e' un centro di accoglienza anziani con problemi mentali. Una giovane ragazza lavorando allo stesso centro, lega particolarmente con uno dei degenti. A unirli vi e' la perdita di un caro (lei ha perso il figlio, lui la moglie) e si ritroveranno a superare l'ultima prova sul senso di colpa e di abbandono, persi nel cuore della foresta. Lacrime (mal) trattenute sui titoli di coda. La speranza era quella di una storia interminabile, di una meraviglia passionale subita, come stato d'animo sconvolto, provocato da una realtà scenica prevaricatoria e ipnotica che fosse contenuta dal controllo. La giovane regista giapponese (rivelazione degli ultimi anni con titoli come, Suzaku, Dance of Memory, Shara),  tra mille dubbi, unisce il cielo e la terra o meglio solleva la terra al cielo. Gli sguardi nel suo cinema si alzano primo o poi al cielo, i corpi chiedono di riposare nella terra. E' l'ultimo meraviglioso sussulto del festival: il divenire, o meglio, l'imprevedibilità del divenire, irrompe negli eventi. Il cinema viaggia da un lato all'altro del corpo: si ode un riverbero, poi un'eco e infine quella paradossale ripetizione della frase "Voglio riposare nella terra..". Tra le note biografiche si scopre che Naomi Kawase viene presto abbandonata dai genitori ed affidata ai nonni materni. La mancanza della figura paterna segnerà costantemente il suo lavoro di regista, sia nei primi lavori in 8mm, che spesso si configurano proprio come una ricerca di tale figura (sin da Papa's Ice Cream, del 1988, per arrivare ad Embracing, del 1992), sia nei lungometraggi a soggetto, che ruotano tutti intorno ad un'assenza che stravolge la vita dei protagonisti. Assenza come vuoto da scavare, da inseguire, da difendere: quando la macchina da presa si muove parecchioe nervosamente (questa e' una presenza) è perché segue i movimenti dei sentimenti dei personaggi. Quando si immobilizza in lunghe inquadrature statiche è come se uno sguardo divino si incarnasse nella scena. Come se un ente supremo della gratuita' creativa guardasse dall'esterno le cose degli umani. Come se lo stesso terzo occhio volesse mostrare le tracce lasciate sul cammino percorso. Allora piu' importante che essere abbracciati da qualcuno sono le parole, pronunciate un tempo, che hanno reso possibile quell'abbraccio. La strada e' lunga nel bosco, sembra di scorgere l'andatura di Last Days, sembra di assistere ad una prossima sparizione travolgente, sopraggiunta improvvisamente.  Movimenti ascendenti e discendenti dell'anima, confusi e disperati. Il rifiuto del passato e' discendente, l'interiorizzazione della colpa ascendente. Come un componimento "haiku", Mogari No Mori, e' un gioiello, un carillon che l'anima consola: sillabe sussurrate alle immagini, delicata e quasi insostenibile leggerezza di una carezza.  

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