CANNES 64 – “Koi no tsumi”, di Sono Sion (Quinzaine des réalisateurs)


Regista che sarebbe un peccato limitare con etichette di comodo quali “cineasta dell'eccesso”, Sono Sion conferma di essere capace di maneggiare forme e registri con impressionante elasticità. Depista sistematicamente le nostre aspettative, e mette in piedi una vertiginosa deriva delle identità grondante sangue e viscere.

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Regista che sarebbe un peccato limitare con etichette di comodo quali “cineasta dell'eccesso”, Sono Sion conferma di essere capace di maneggiare forme e registri con impressionante elasticità. Ci mette sulla strada del giallo (un cadavere perversamente mutilato a Shibbuya, una detective che indaga), ma non lo è. Ci illude di poterci adagiare su una “normale” storia di liberazione sessuale (la devotissima e castigata moglie di uno scrittore comincia a emancipare i propri sensi lavorando come modella, per poi prendere una china sempre più abietta e rovinosa), ma le cose si rivelano assai meno semplici.
Sesso o non sesso, sangue o non sangue (e ce n'è parecchio), Koi no Tsumi è innanzitutto una vertiginosa deriva delle identità. Al centro, c'è il rapporto di acuta fascinazione e (soprattutto) di emulazione che incatena la mogliettina irreprensibile a una assai disinibita professoressa universitaria che ama prostituirsi nel tempo libero per sentirsi fino in fondo padrona di se stessa. Ma non è nemmeno soltanto questo. Perché questo bollente “transfert” di personalità (quando non addirittura un godere per interposta persona) non si limita a quelle due, ma prende in mezzo, tra gli altri, l'anziana madre della prof e persino la detective stessa.
Il film intorbida le acque inizialmente chiare del whodunit; turbina orgiasticamente (oltre ai diversi tempi del racconto) i desideri e le proiezioni delle tre protagoniste, fondendole insieme in un unico punto di vista freneticamente sovrapersonale; indugia a lungo sulle occasioni in cui il dolore e le pulsioni represse riconquistano la superficie, sbracando senza freni.
Ma si sofferma forse ancora di più sui momenti in cui un personaggio (la professoressa, il presunto maniaco biancovestito…) esercita, tramite la parola, il proprio ascendente su qualcun altro, fino quasi a plagiarlo. Perché, come non smette di ripeterci la “prostituta-per-hobby” di Koi no tsumi, le parole hanno un corpo, e bisogna sbatterci contro come e più di quanto si sbatta contro le varie efferatezze del corpo vero e proprio. Perciò, non sorprende che (qui come non di rado in Sono, a ben guardare) la trasgressione più impervia di tutte abbia poco a che fare con il corpo, ma con l'amore, il “taglio” più invisibile, ingiustificabile ed insalvabile. L'importanza del cinema carnale di Sono Sion sta anche nel suo sporgersi sul limite, là dove, arrivati al fondo delle viscere (anche letteralmente), si intravede qualcosa che alle viscere non si riesce a ridurre.

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