CANNES 64 – "Martha Marcy May Marlene", di Sean Durkin (Un certain regard)
Primo lungometraggio del regista statunitense Sean Durkin, premiato per la regia al Sundance Film Festival, è un film che si concentra sui personaggi, ma è abile a non sovrapporsi allo sguardo della protagonista. Non si tratta di una soggettiva estesa. Semplicemente si precipita con lei nell’incubo per poi esserne respinti. Durkin sceglie quindi di privilegiare il non detto senza indugiare mai in spiegazioni che renderebbero il film meno preciso ed essenziale
Martha Marcy May Marlene, primo lungometraggio del regista statunitense Sean Durkin premiato per la regia al Sundance Film Festival, è l’evoluzione del suo precedente cortometraggio Mary Last Seen dove si accennavano in motivi che sono divenuti dominanti in questo film.
Nella grande casa sul lago dove la sorella e suo marito stanno trascorrendo le vacanze, Martha vive come sonnambula. Non si sa quasi nulla di lei, tranne le poche informazioni che affiorano dai ricordi, anzi, invadono con sussulto i suoi pensieri. Basta un gesto o un oggetto per farle rivivere le esperienze del passato, le violenze subite, le canzoni attorno alla chitarra, il lavoro e gli “insegnamenti” da seguire con obbedienza. Nulla traspare mai dalle sue parole, mentre lo spaesamento è profondo nei suoi occhi.
Il lavoro di Sean Durkin si concentra sui personaggi, ma è abile a non sovrapporsi allo sguardo della protagonista. Non si tratta di una soggettiva estesa. Semplicemente si precipita con lei nell’incubo per poi esserne respinti, perché non è la vita di un setta a dover essere esaminata, ma le reazioni di chi ha deciso di dimenticare e non sa più distinguere tra quello che vede e quello che pensa. Su questi due piani si sviluppa l’idea visiva di Durkin, che sceglie quindi di privilegiare il non detto senza indugiare mai in spiegazioni che renderebbero il film meno preciso ed essenziale. Il passato si insinua così nel presente e la tensione nasce dall’imprevedibile che domina l’atmosfera. La casa sul lago è il posto perfetto per alimentare l’equivoco. Ci appare sospeso, quasi irreale, una sorta di felice non-luogo che potrebbe nascondere infiniti segni, trappole e via di fuga.