CANNES 67 – Snow in Paradise, di Andrew Hulme (Un certain regard)


Esordio al lungometraggio per il regista britannico. Dave, è un piccolo delinquente di città, che passa le giornate tra droga e violenza, nella zona est della periferia di Londra. Non è un gangster movie inglese, ma un trip onirico, per strade, stanze, locali, dissimulando elementi thriller Un puzzle impazzito, schegge di violenza inaudita, che fanno da contrappunto all’attesa caricata a sangue

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snow in paradiseEsordio al lungometraggio per il regista britannico, con una carriera da montatore in Control, The American, Slevin Gangster Number One, The Impostor. Storia che si ispira alle vicende reali del suo sceneggiatore, Martin Askew, che interpreta la parte dello zio del protagonista. Quest’ultimo, Dave, è un piccolo delinquente di città, che passa le giornate tra droga e violenza, nella zona est della periferia di Londra. Quando per colpa dei suoi affari loschi, muore il migliore amico Tariq, Dave è sull’orlo di una crisi di nervi, che lo renderà ancora più arrabbiato. Solo all’apice della sua caduta agli inferi, trova per caso conforto e serenità, facendo pace con se stesso, in una comunità islamica, frequentando la Moschea del quartiere. Ma il passato criminale ritornerà per metterlo nuovamente alla prova…
Non è un vero e proprio gangster movie inglese (come Lock e Stock – Pazzi scatenati di Guy Ritchie o Honest di Dave Stewart), ma un progetto differente, un pedinamento ossessivo del personaggio, vittima di visioni temporalità sfalsate. È un giro onirico, per le strade, stanze di appartamenti, locali notturni, dissimulando liberamente diversi elementi thriller e mostrando un’anima più universalmente sociologica. Evidente è il richiamo alla religione dell’Islam, cercando di creare un potente dilemma morale sul rapporto tra l’Europa e i mussulmani. Opera complessa, apparentemente più lineare, ma non facilmente inquadrabile. Resta sicuramente positivo l’approccio destabilizzante insito nella strutturazione dell’impianto visivo, ma con qualche evidente problema nel compattare il tutto. Tendenzialmente è interessante il lavoro di montaggio che gioca con la rabbia del protagonista, facendola crescere a dismisura, per poi tagliare l’azione sullo sfogo, o quantomeno frammentarla in vari “frame” successivi e non necessariamente esposti uno dietro l’altro in sequenza. Un puzzle impazzito, schegge di violenza inaudita, scariche di adrenalina che fanno da contrappunto all’attesa caricata a sangue. Scatta inesorabilmente, ma con qualche imbarazzo, il gusto di considerare una certa affinità con il free cinema inglese, se non altro per quella livida ed esasperata ricerca del gesto deflagrante.       

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