#Cannes2016 – Chouf, di Karim Dridi

Una guerriglia di banlieue, che Dridi affronta in maniera fin troppo grossolana nel probabile tentativo di mantenere una grana a bassa frequenza per le immagini, perdendo alla fine di efficacia

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Il “chouf”, parola di origine araba, nei quartieri della mala marsigliese è la vedetta che controlla dall’alto il traffico di droga per le strade. Il terzo tassello della trilogia di Marsiglia del discontinuo Karim Dridi (gli altri due episodi, visti a Cannes e Locarno, sono Bye-Bye e Khamsa) inizia però lontano dai marciapiedi, nel corso di un pranzo di famiglia per festeggiare il ritorno a casa di Sofiane dagli studi di economia che lo hanno tenuto lontano dalla violenza del ghetto. Il ragazzo non tarderà a recuperare sangue e piombo perché, dopo una telefonata che lo costringe ad abbandonare la tavola e a uscire di casa, il fratello maggiore verrà presto falciato davanti alla porta dalle smitragliate di una guerra tra gang.
L’indagine per inchiodare i colpevoli e vendicarsi dell’omicidio dell’amato fratello trasporterà Sofiane e l’obiettivo di Dridi all’interno delle coordinate dell’oramai canonizzato sottogenere gangsta rap di banlieue imbastardite e spietate, in cui tradimenti, doppiogiochismi e sete di potere vanno di pari passo con le bordate dell’hip hop meticcio di periferia. Ed ecco che, a sorpresa, gli studi abbandonati da Sofiane gli torneranno utili al momento di reimpostare secondo strategie aziendali e di costumer care l’intera piazza dello spaccio gestita dalla versione marsigliese di Genny Savastano, il massiccio Reda: l’ascesa del ragazzo nella gerarchia del potere di strada finirà per distoglierlo dalle esigenze della vendetta familiare?
E se il nemico fosse alla fine un nemico interno, lontano dalle opposizioni per il controllo del mercato e dai magheggi sotterranei della mafia che conta davvero, quella in giacca e cravatta impersonata da un eloquente “Libanese”?

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Dridi tenta l’innesto di un paio di intuizioni inusuali per deviare il percorso di Chouf dalla narrazione sedimentata del racconto malavitoso di ultima generazione, come gli elementi grotteschi (il killer nano, il pappagallo-corriere…) e per l’appunto l’idea di applicare al commercio di droga le leggi dell’economia aziendale. Gli improvvisi toni noir in cui la vicenda si immerge nel momento in cui Sofiane abbandona la carriera da spacciatore per focalizzarsi nuovamente sull’indagine sull’omicidio del fratello, legata ancora una volta a espedienti di device, telefonate da numeri anonimi e sim irrintracciabili, funzionano probabilmente meglio dell’armamentario sporco della guerriglia di banlieue, che Dridi affronta in maniera fin troppo grossolana nel probabile tentativo di mantenere una grana a bassa frequenza per le immagini, che possa sparare insomma le proprie cartucce ad altezza uomo.
L’impianto finisce però così per perdere decisamente di efficacia, seppure la caratterizzazione dei mille personaggi secondari di questo sottobosco di perfidi killer teenager (l’incredibile pusher ragazzino Gato) mantenga una sua forza espressiva figlia soprattutto del convinto impegno di tutto il cast.

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