#Cannes2016 – Personal Shopper, di Olivier Assayas

Assayas ci regala un film misterioso, opaco, modernamente gotico, che si spezza in un flusso constantemente deviato dalla ghost-story al cinema d’autore e poi al thriller. In Concorso.

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Personal Shopper Assayas

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Eccoci dunque. Gesto anarchico del più grande regista francese vivente (insieme ad Audiard, Desplechin… fate voi), che decide di mollare subito la morsa istituzionale che si era indebitamente appropriata dello straordinario Sils Maria, per abbozzare una tela horror apertissima, spiazzante, indubbiamente rischiosa. Arrivano i fantasmi nel cinema di Olivier Assayas. Hanno effetti digitali stranianti anche per i puristi del suo cinema e nascono nei punti di fuga del buio, nelle oscure profondità del set come in un film di Kyoshi Kurosawa. E comunicano con un rumore. Un rumore assordante.

 

“Per me il punk era soprattutto rumore, realismo, cruda verità antinarrativa”.  

 

Maureen è un’americana che vive a Parigi e fa un lavoro possibile solo nella società immateriale del XXI secolo. È la personal shopper di una star del mondo dello spettacolo. Per conto di lei acquista gioielli, scarpre, abiti. È continuamente in movimento: nelle strade di Parigi, nei viaggi a Londra, in camere d’albergo e appartamenti vuoti. Quando arriva la notte prova a mettersi in comunicazione con il fratello Lewis, medium che riusciva a sentire gli spiriti e che sei mesi prima è morto per un arresto cardiaco. Forse anche Maureen ha poteri paranormali. Sente qualcosa, vede qualcosa. Poi un giorno comincia a essere tormentata in chat da uno sconosciuto. È Lewis? Un “semplice” stalker? O un serial killer che vuole incastrarla?

Mettiamo da parte i fischi, le risatine di scherno e lo snobismo – questo sì smaccatamente borghese e vecchio – di molti addetti ai lavori. Assayas ci regala un film misterioso, opaco, modernamente gotico, che si spezza in un flusso constantemente deviato dalla ghost-story al cinema d’autore e poi al thrillerTra gli esili fili drammaturgici di una parabola sperimentale che è soprattutto documentario teorico sui legami dei nostri tempi, il regista di Carlos ripercorre anche molto del suo cinema precedente. C’è il pessimismo punk di Demonlover – altro film lucidissimo e sconcertante, avanti anni luce da quel 2002 in cui venne presentato (e fischiato) a Cannes – c’è l’attraversamento dei generi di Boarding Gate, e poi ancora il travestimento di Irma Vep e l’arte come ulteriore canale spirituale nella pittura astratta di Hilma af Klint.


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Ancora una volta Assayas ci parla dell’oggi che è già domani. Del nostro modo di comunicare, dell’impossibilità di arrivare a un contatto e di vivere in un altro mondo che non sia questo. Nel suo film film più apertamente esoterico, arriva a tracciare il percorso più laico possibile. Tutto è eternamente rimandato. Lo spiritualismo si fa ossessione sonora, travestimento, dipendenza psicologica e persino erotica, ma rimane un accesso (im)possibile, costantemente frustrato. Una carta d’imbarco (boarding gate, appunto) che non sappiamo decifrare, perchè costellata di domande senza risposta. E se gli spiriti comunicassero anche attraverso i social? E se fossimo già oggi nell’era della trascendenza? Che differenza c’è tra i beep dello smartphone e le percussioni violente del fantasma che tormenta Maureen? Film sull’impermanenza dei corpi, degli oggetti, della conoscenza. Assayas non può che ripetere sempre lo stesso pedinamento cercando risposte nell’elettricità del desiderio – con la Stewart che diventa forse l’unico punto di appoggio della sua confusione, la vera allucinazione mentale e corporea di un film clamoroso.  Sbagliato? Chissà. Forse Personal Shopper è semplicemente una traccia di immagini con un’idea di mondo e un’idea del cinema. Al tempo dei nostri “padri” per queste cose si usava l’aggettivo geniale

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    Un commento

    • Speriamo che ‘Personal Shopper’ non sia come ‘Demonlover’ che proprio non mi piacque!