#Cannes2018 – Les filles du soleil, di Eva Husson

A Eva Husson non interessa il rigore rosselliniano, né l’aderenza documentaristica alla materia. Insegue l’epica e l’intrattenimento hollywoodiano. In concorso.

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Ha un occhio bendato la giornalista e fotografa di guerra Mathilde. Come John Ford o i pirati dei romanzi d’appendice. È una menomazione che non la preoccupa più di tanto. Non le impedisce di essere meno testimone. Il sospetto che viene allo spettatore è che quella benda sia soprattutto un segno cinematografico appunto, una sorta di omaggio a un immaginario popolare su cui Les filles du soleil punta moltissimo con tutti gli effetti collaterali che una scelta di questo tipo comporta dinnanzi a una tematica così delicata. Qui si parla infatti della guerra in Kurdistan. E nello specifico di un battaglione di guerrigliere kurde, alla vigilia di una missione di liberazione di una città caduta nelle mani dell’Isis. Mathilde è la testimone di questo mondo, ma soprattutto la narratrice di una eroina: la leader Bahar, interpretata da Golshifteh Farahani, che lotta per la sua terra e per ritrovare il figlioletto fatto prigioniero.

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A Eva Husson non interessa minimamente il rigore rosselliniano, né l’aderenza documentaristica alla materia. La regista francese insegue l’epica e lo fa utilizzando tutto il repertorio retorico possibile: scene madri, colonna sonora sbilanciata e magniloquente, rallenti e panoramiche aeree. E’ un male? Forse sì, ma l’operazione sin dai titoli di testa è francamente esibita e non insegue alcun tipo di scorciatoia intellettuale. Le scene di guerra sono efficaci e recuperano un respiro classico, da “grande schermo”, che si differenzia dai paradigmi del finto-reportage abusati nel cinema contemporaneo. Risolte con un punto di vista ideologicamente ambiguo, ma cinematograficamente chiarissimo. Non è quello “esterno” della reporter, né quello in soggettiva delle combattenti: qui domina il modello eroico dello spettacolo e degli ideali. Husson insomma lavora di grana grossa senza mai sfumare il suo sguardo o la sua scrittura. In un certo senso questo film non dispiacerebbe a John Milius o a Sylvester Stallone. Del primo sembra persino ereditare una spiazzante fascinazione estetica per la guerra, con i bombardamenti e le macerie che hanno la “forza” di diventare belle immagini. Insomma il parametro è soprattutto quello di un intrattenimento impegnato di matrice hollywoodiana. Più dalle parti di Oliver Stone e di Roger Spottiswoode – ricordate Sotto tiro? – che in quelle di Kathryn Bigelow, che per parte sua è una cineasta di un altro pianeta per consapevolezza teorica, politica ed emotiva. Huston fa quello che può e non è certo moltissimo. I risultati appaiono discutibili soprattutto nella psicologizzazione dei personaggi e negli andirivieni temporali che confondono il ritmo e centro emotivo del racconto. Paradossalmente Les filles du solei paga lo scotto di voler tentare di oltrepassare i suoi limiti e provare a sondare una sensibilità che non rientra nelle corde della sua autrice. Eppure gli scandali sono ben altri.

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