CINEMA. Festa Internazionale di Roma 2007 – "Clint Eastwood, An American Odissey", di Michael Henry Wilson (Extra)

Il documentario di Michael Henry Wilson capisce che c'è un solo modo di rappresentare l'uomo Clint Eastwood: quello di eclissare qualsiasi forzatura di senso e lasciare che sia lui stesso a raccontarsi. Clint Eastwood è infatti l'unica icona ancora possibile del pale rider: nella vita come nella pratica cinematografia, che sia su un cavallo o seduto nella sua veranda.

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Forse c’è davvero solo un modo per raccontare l’epopea di Clint Eastwood. Quello di eclissare qualsiasi forzatura di senso, e lasciare che l’attore e regista americano si racconti da solo.
Clint Eastwood – An American Odissey, documentario di produzione francese diretto da Michael Henry Wilson (già curatore di Un viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese) riesce a capire che è questo l’unico percorso possibile, e perciò sceglie di abbandonare completamente il campo al cineasta e di evitare (a parte la breve introduzione iniziale) qualsiasi intervento di voce over.
In più, non ripercorre la sua vita in modo esemplare, illustrando la parabola del modesto figlio di un benzinaio della Depressione, che arriva al trionfo della notte degli Oscar nel 1993, con Gli spietati. Anzi, dei premi e dei riconoscimenti ottenuti da Clint Eastwood nella sua lunga carriera non si fa giustamente menzione, anche perché il loro valore è puramente decorativo, del tutto superfluo anche per lo stesso protagonista.
Lo scopo di questa lunga intervista è quello di dimostrare che i suoi film – nel suo caso sarebbe sbagliato parlare di poetica, caso mai di un insieme di valori ricorrenti – gli somigliano in modo del tutto involontario ed inconsapevole. La sua grande efficacia sta nel riuscirci in modo del tutto spontaneo, quasi che questo parallelismo sorga necessariamente dalla sua esperienza esistenziale e professionale.
Infatti, tenendo fede ai suoi personaggi, quasi tutti outsider che rifiutano il trionfo e il successo (in questo caso è rilevante la preminenza data agli spezzoni di film meno conosciuti come Honkytonk Man), anche Eastwood è uno a cui piace stare lontano dai riflettori, a godersi la pace del suo ranch californiano (dove si tiene luogo quasi tutto il dialogo), dopo la lunga fatica del dittico Flags of Our Fathers e Letters From Iwo Jima. E' uno che definisce i suoi film migliori, con una sincerità che non può essere scambiata per falsa modestia, come "incidenti fortuiti".
Michael Henry Wilson si limita quindi a provocare il racconto di un uomo che si trova molto più a suo agio a contatto con la natura che non ad Hollywood. Abilmente, l’intervistatore non fa altro che riprenderlo in un primo piano con le sue proprietà sullo sfondo, una collina e “tanta terra intorno”, consapevole che anche solo questo tipo di inquadratura dice quasi tutto dell’uomo che ha davanti.
Se dunque il senso della vita di Clint Eastwood è un costante invito ad osare, a seguire il proprio istinto e a non fossilizzarsi sui ruoli precostituiti (“Non volevo essere ricordato tutta la vita come un cowboy e un commissario di polizia”), se questo messaggio genuinamente impregnato di valori americani risulta credibile, è solo perchè è la sua stessa fisicità che lo incarna e lo rende verosimile, anche quando è privata di qualsiasi artificio di scena.
Clint Eastwood rimane ancora oggi l’unica possibile icona del pale rider, anche quando è comodamente seduto nella sua veranda. Un umile individualista (“Credo molto più nell’individuo che nelle istituzioni”), che tiene in grande considerazione le piccole storie degli uomini. Il tributo di Michael Henry Wilson non può che concludersi in questo modo, considerando l’evidenza priva di ipocrisie del suo protagonista: scoprire che la sua pratica cinematografica è outborder come la sua personalità, non è altro che una piacevole conferma.

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