CINEMA. Festa Internazionale di Roma 2007 – "Hafez", di Abolfazl Jalili (Concorso)

nabat“Hafez diventa poeta perchè da giovane si era innamorato”: Jalili non usa giri di parole, e già fa ti fa venire un brivido, un sussulto del cuore – un racconto leggendario e squisitamente popolare, una fiaba simbolica e morale che procede per continue accensioni dello sguardo, in un’atmosfera di sogno diffuso, come una visione sempre densa ed evocativa

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nabat“Hafez diventa poeta perchè da giovane si era innamorato”. Dovendo raccontare la sinossi del suo decimo lungometraggio tra le righe del pressbook, Abolfazl Jalili (del cui Dance of Dust del 1992 venne proibita dal governo la proiezione sia dentro che fuori l’Iran, sino al 1998 in cui il film riapparve a Locarno vincendo il Leopardo d’Argento) non usa giri di parole, e già fa ti fa venire un brivido, un sussulto del cuore – “il poeta tedesco Johann Wolfgang Von Goethe disse a proposito della poesia Hafeziana: bisognerebbe sudarsi anche l’anima per capire le poesie di Hafez”. E all’interno dei 98 minuti di pellicola, l’Hafez protagonista del film di Jalili se la suda davvero, l’anima: colpevole di aver gettato un unico sguardo verso una bellissima ragazza tibetana a cui insegnava il Corano al riparo dietro una parete che ne sanciva la lontananza sociale forzata, e da cui non riesce a trattenersi dallo sbirciare, Shams Al-Dim Mohammad, vissuto circa 700 anni fa a Shiraz in Iran, perde il titolo di ‘Hafez’, che viene attribuito esclusivamente a chi conosce il Corano a memoria nei suoi 14 canti differenti. Per togliersi dagli occhi, dalla mente e dal cuore l’amata Nabat, la ragazza tibetana che con la sua voce e le sue luminosissime domande dall’altra parte del muro ha stregato l’anima del suo insegnante, Hafez decide di sottostare al giuramento dello specchio: e inizia così la sua lunga e faticosissima odissea alla ricerca di sette vergini in sette villaggi differenti a cui chiedere di strofinare e pulire uno specchio che oramai porta sempre con sé. Un racconto leggendario e squisitamente popolare che Jalili rende in modi e toni che non possono non ricordare il Pasolini della Trilogia della Vita, o una versione ‘alleggerita’ dell’impasto allegorico degli apologhi di Sergej Paradzanov (Il colore del melograno, La leggenda della fortezza di Suram…): una fiaba simbolica e morale che procede per continue accensioni dello sguardo, contrasti anche stridenti tra l’apparente compostezza con cui vengono risolte le sequenze più drammatiche, e le improvvise esplosioni liberatorie (urla, corse sfrenate sino a ruzzolare per terra) nel pathos dei momenti più commoventi e sentimentali. Jalili cattura i colori vivissimi di un Iran mitico ed ancestrale, ma al contempo resta stretto sui volti che fanno la sua storia – eppure, né la storia né i volti sembrano avere un contorno definito, ma paiono mutevoli e cangianti, spesso inafferrabili al nostro occhio che non riesce a renderli ben definiti (…come un film visto sempre piangendo…), in accordo con l’atmosfera di sogno diffuso che si respira lungo tutta l’opera, piacere di una visione continuamente densa ed evocativa in cui struggersi d’amore a conti fatti diventa l’unico modo per rendere l’immagine (allo specchio) pulita, limpida, chiara e cristallina.

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