Da Ziva Postec ai poeti del Québec

In corso le giornate del cinema quebecchese in Italia, su MyMovies fino al 31 marzo. Ecco un doc sulla montatrice di Shoah di Lanzmann, e il ritratto di un poeta senza gloria né redenzione

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In corso fino al 31 marzo la 18esima edizione delle Journées du cinéma québécois en Italie / Le giornate del cinema quebecchese in Italia, l’appuntamento italiano con la miglior produzione cinematografica del Québec, disponibile gratuitamente su Mymovies con un programma dal titolo “Rabbia e Resilienza”: sei lungometraggi, di cui quattro in anteprima italiana, e diciotto inediti cortometraggi. Ecco i nostri consigli.

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Ziva Postec la monteuse derriere le film Shoah, di Catherine Hebert

Shoah, il monumentale lavoro di Claude Lanzmann basato sulle testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto segnò uno standard con il quale tutte le pellicole successive dedicate alla più grande tragedia del Secolo Breve avrebbero dovuto necessariamente misurarsi. È facile immaginare che con le sue nove ore di durata un lavoro sostanzioso fu destinato al montaggio, come conferma il  film della documentarista Chaterine Hèbert dedicato a Ziva Postec, la montatrice che seguì passo dopo passo l’estenuante lavorazione del film uscito nel 1986. Il documentario è una sorta di viaggio nella memoria di Ziva Postec che ricostruisce la sua vita navigando nei ricordi, in particolare attingendo dagli undici anni di produzione che portarono a compimento il film di Lanzmann, un periodo di significativa importanza per la sua vita. I novanta minuti circa che compongono il film sono strutturati senza seguire un canovaccio prestabilito. Postec racconta in prima persona la sua vita attuale, in Israele, riferendosi alla macchina da presa da cui è sempre pedinata.

Seguiamo i suoi movimenti giornalieri, inclusi gesti quotidiani come andare al mercato, tuttavia il documentario non riguarda esclusivamente il lavoro dietro Shoah, ma in senso generale l’intera carriera di Ziva Postec, accennando, per esempio, agli incontri con cineasti francesi come Alain Resnais, Jean–Pierre Melville e Jacques Tati, ma anche all’importanza di Parigi nella sua educazione cinefila, una città che tra gli anni 70’ e 80’ rappresentava uno stimolo enorme per chiunque volesse intraprendere una carriera nel cinema. Il problema della memoria è evidente in numerose sequenze. Le scene che si svolgono all’interno di cineteche con cui viene spiegata da specialisti del settore la difficile cura dei materiali d’archivio, alternati da immagini d’epoca che mostrano la lavorazione di Shoah, mettono in risalto l’importanza di preservare il passato. La casa di Ziva Postec è un vero e proprio archivio di ciò che accaduto, sia cinematografico dalle tonnellate di pagine di sceneggiature originali nascoste, sia inerente alla cultura ebraica con centinaia di testi esposti sugli scaffali. Il ragionamento sulla funzione autentica del montaggio è qui ben rappresentato da un lavoro sulle sovrimpressioni che simulano talvolta una pellicola sgranata che accentua il confine e il distacco tra i video d’archivio e le nuove riprese, tra passato e presente.

La storia e la vita della famiglia di Ziva Postec si fonde con il corso degli eventi che hanno portato alla nascita della cinematografia nazionale israeliana, partendo dall’origine dei primissimi Studios situati a Herzliya e Givataiym. Il sentimento e l’emozione suscitata dal viso della protagonista nel raccontare il suo vissuto personale trascendono la mera descrizione della lavorazione di un film, legandosi alla storia di un intero popolo.

For Those Who Don’t Read Me, di Yan Giroux

Il film di Yan Giroux racconta una storia dalla forte connotazione decadentista. Il protagonista della vicenda, Yves, è un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla scrittura di poesie e di monologhi che riflettono sulla vita e sull’esistenza terrena. Trascorre le sue giornate tra bicchieri di vino e una frequentazione assidua di squallidi pub di periferia esponendo i suoi deliranti e poco convincenti discorsi. Tuttavia il suo modo di intendere la vita viene sconvolto dall’incontro con Dyane, una graphic designer che vive con il figlio Marc. Il film è un viaggio psichedelico che esplora la vita di un bohémien contemporaneo, un apolide che tenta di ricercare il senso profondo della vita attraverso il linguaggio poetico. Questa notevole ambizione si traduce in un’atmosfera caotica che attraversa il film. Yves è una scheggia impazzita che rimbalza tra una scena e l’altra, accanto agli edifici, alle case eleganti e perfettamente regolari, abbiamo lui, un uomo malvestito ai margini di una società che rimane affascinata dalla sua figura ma al tempo stesso impaurita.

Malgrado ciò, Yves è un uomo di grande cultura, ammaliato dalla letteratura e dal dibattito su di essa. In tutto questo, Martin Dubreuil, l’attore che lo interpreta, restituisce quel senso di disagio che non abbandona mai il suo personaggio. Nonostante il controverso incontro con Dyane, la donna che avrebbe potuto portarlo su una retta via, lui rimane sui suoi passi da poeta maledetto privo di una meta, che vive le giornate senza pensare alle conseguenze future. Se prendiamo in analisi il modo con cui il regista cerca di far passare questo messaggio troviamo indubbiamente il punto di forza del film. È come se in qualche modo gli spettatori stessi abitassero la coscienza di Yves, essi comprendono il caos interno che lo tormenta rendendolo un uomo precario, vittima dei suoi istinti primitivi, come bere, cantare e urlare a squarciagola.

Il finale è una dichiarazione d’intenti piuttosto esplicativa. Troviamo Yves seduto su un divano ad osservare un televisore che sembra quasi trasmettere i contenuti della sua mente. Immagini e situazioni raccordate senza soluzione di continuità, montate in modo frenetico e sconnesse tra di loro, che formano l’incomprensibile puzzle di una vita basata sull’irrazionale.

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