Daniel Pennac: ho visto Maradona, di Ximo Solano

Daniel Pennac è appassionato e sincero ma forse pecca di elitismo. Alla sua indagine sul peso culturale di Maradona per i napoletani manca in effetti l’unico elemento essenziale: il popolo. Freestyle

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Parte da premesse affascinanti, Daniel Pennac: Ho visto Maradona, che, guidato dal corpo costantemente in scena dello scrittore francese, si propone di analizzare la figura di Diego Armando Maradona dal punto di vista iconico, come pura immagine che ha influenzato, nel profondo, l’identità culturale napoletana anche oltre la sua morte.

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Lo spunto lo offre l’omonimo spettacolo teatrale scritto e interpretato dallo stesso Pennac insieme alla compagnia di teatro sperimentale MIA, di cui il documentario pare un’appendice saggistica. Ma si tratta di una definizione forse troppo stabile per un progetto che accetta lucidamente di riflettere sulla complessa, contraddittoria identità di Maradona costituendosi come un racconto “informe”, un film collage che è un po’ memoir, un po’ doc tradizionale puntellato da talking heads (lo stesso Pennac converserà con Roberto Saviano, Maurizio De Giovanni e con il fotografo Luciano Ferrara), un po’ saggio di sociologia e critica visuale, puntellato da estratti dello spettacolo e, soprattutto, del suo backstage.

È una scelta coraggiosa, quella di Pennac e Solano che, almeno in un primo momento, sembra dare buoni risultati. Perché una volta accettata la natura frammentaria di Ho visto Maradona ci si ritrova di fronte ad un film che si muove tra folgorazioni di spiazzante genuinità, tra la descrizione di Napoli come limbo purgatoriale fatta da De Giovanni, Saviano che ricorda quella volta in cui, a Italia ’90, i tifosi italiani abbracciarono il paradosso e iniziarono a inneggiare Maradona, in quel momento in campo proprio contro la loro nazionale ed il racconto di Luciano Ferrara, che nel ricostruire le circostanze che lo portarono a scattare la prima foto di Maradona in terra italiana è forse colui che cattura meglio l’anima sottilmente barthesiana di tutto il progetto.

Ma i momenti migliori sono forse quelli in cui Maradona viene spostato quasi fuori campo e se ne asseconda l’anima “magica folklorica” che influenza l’agire di chi vi entra in contatto. E allora ecco che l’istrionico Pennac si lancia in una sorta di assolo in cui riflette sulla “poesia fisica” del giocatore e cattura senza sforzo l’attenzione dei membri della compagnia, ecco la splendida parentesi in cui la regista Clara Bauer introduce alla magia del palcoscenico il piccolo Giuseppe, scelto per interpretare Diego bambino, ecco che persino Maurizio De Giovanni viene coinvolto dalla compagnia a cantare un brano popolare napoletano mentre si prepara lo spettacolo.

Ho visto Maradona

Eppure sembra mancare qualcosa a Daniel Pennac: Ho visto Maradona, che lentamente, ma in modo inesorabile, finisce per arrancare andando fuori asse. In effetti è evidente che a questa storia “popolare” di un’icona manca proprio la voce del popolo. È affettuoso Pennac, lucido, ma cade nella trappola di un elitismo borghese, forse involontario ma pericoloso per la tenuta del progetto. Si circonda di intellettuali suoi simili, in sostanza e non coinvolge mai davvero i diretti interessati. Pare, piuttosto, un distaccato flaneur, racconta Maradona passeggiando attraverso i quartieri popolari ma non sa rapportarsi davvero a quella cittadinanza che è stata toccata in prima persona, pienamente, dal Pibe de Oro. Nei casi migliori si limita a guardarla da lontano, in altri, invece scade apertamente nei clichè da cartolina. Eppure è evidente che, nei rari momenti in cui la parola passa ai napoletani il racconto esorbita in momenti gustosissimi, come quando la scena viene rubata da due anziane signore che pregano Maradona come un santo laico.

Ma Pennac e Solano non lavorano davvero su certe parentesi, condannando tuttavia in questo modo il racconto a girare a vuoto, senza saper più di cosa parlare. Così le riflessioni di Pennac, sempre più egoriferite e gli estratti dello spettacolo finiscono per inglobare il flusso di immagini. Ma è un gesto disperato, necessario a salvare un’indagine su Maradona che tuttavia non può che smaterializzarsi Perché il fuori campo perde la sua componente “magica”, quasi che l’immagine del calciatore, evocata, finora, ma sempre più impossibilitata a trovare terreno continuamente fertile, si sia disintegrata.

E allora, forse, il sospetto è che tutto sia finito lasciando lo spettatore con in mano ben poco di più di quello che avesse quando tutto è iniziato.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.6
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Il voto dei lettori
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