Essere Giorgio Strehler, di Simona Risi

Dal racconto emerge l’eccentrica figura del regista e il suo affascinante magnetismo, la sua energia creativa destinata alla democratizzazione della cultura.

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Sono Giorgio Strehler che vi parla, fra gli scettri e le corone, fra i ventagli e le spade, fra i costumi d’oro e d’argento, quelli di sete cangianti e quelli di povera stoffa. (…)
Dall’incipit del film

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Giorgio Strehler è stato un personaggio cruciale e originale nel panorama culturale italiano. Negli anni che andavano tra i ’60 e ’70 del secolo scorso le sue regie teatrali catturavano l’attenzione dei critici e del pubblico, aprivano polemiche e segnavano un nuovo traguardo da superare.
Appartenente a quella schiera di intellettuali che era cresciuta all’interno di una mai estinta contestazione, Strehler è stato un personaggio controcorrente, sicuramente contro la cultura dominante e con una chiara visione di una cultura che sapeva esprimersi, attraverso il suo lavoro, in quella forma che nasceva dall’apparentare la cultura alta (Bertolt Brecht) con quella più popolare (le canzoni della mala cantate da Ornella Vanoni). Per realizzare questo il regista triestino – ricordato con il film di Simona Risi, prodotto per Sky nel centenario della sua nascita – aveva bisogno di un suo mondo, di un suo palcoscenico dove sperimentare le sue regie nervose e dove, attraverso il materiale culturale elaborato grazie al teatro, ma anche per mezzo della musica di cui era appassionato ascoltatore, soprattutto instaurare un dialogo necessario con la città di Milano. Questo spazio era il Piccolo Teatro, voluto dal regista triestino e dall’amico Paolo Grassi, eclettico personaggio che divideva il suo lavoro tra l’attività di impresario teatrale e giornalista. Il Piccolo Teatro nacque in un locale recuperato, nell’immediatezza della fine della seconda guerra mondiale, in uno stabile nel quale i fascisti avevano torturato gli oppositori del regime. Il Piccolo Teatro divenne un luogo anche di riscatto. Quel palcoscenico ridotto e quasi esclusivo permise a Strehler e a Grassi di realizzare negli anni quel rapporto con Milano, che per il regista era la città fatta propria dopo la fuga dalla natia Trieste. Qui approdò entrando presto nel tessuto culturale più vivo della metropoli. Scriveva nel 1968 il giornalista e critico teatrale Giovanni Mosca: “Quel carattere di teatro esemplare, di teatro perfetto, di teatro destinato esclusivamente alla borghesia progressista […] per farne un teatro popolare (naturalmente nel senso più nobile ed elevato della parola), accessibile cioè a quella massa cui i teatri di Stato sono, o almeno dovrebbero essere, destinati.

Essere Giorgio Strehler sa raccontare tutto questo attraverso una costruzione tanto televisiva, destinazione naturale dell’operazione, quanto però originale. L’originalità soprattutto risiede nell’avere recuperato le interviste, le dichiarazioni, dello stesso regista. È lo stesso Strehler che sembra accompagnarci dalla prima maturità fino agli ultimi anni della sua vita (sarebbe scomparso nel 1997) in questo viaggio attorno alla sua figura di traghettatore di quel teatro che in parte ebbe modo di essere riscoperto proprio grazie al suo lavoro. Le parole dell’incipit restano così una traccia precisa per entrare nel mondo del protagonista, con la guida quasi virgiliana dello stesso soggetto dell’indagine.
La sua eccentrica figura emerge con chiarezza nel racconto, quella sua singolare capacità di interpretare nella prima prova di ogni opera messa in scena tutti i personaggi, il suo catapultarsi sul palcoscenico per stimolare gli attori e tradurre egli stesso con i gesti e il tono della voce la sua idea di interpretazione. Le immagini catturano i gesti, le parole dentro le quali cova e improvvisamente sembra esplodere quell’energia creativa che serve a trovare la forma esatta per interpretare Shakespeare o Goldoni, Brecht o Mozart, per trovare la chiave che apra quei mondi che si consuma(va)no nello scorrere di una serata. Un racconto forse troppo legato alla cronologia dei fatti e dell’età del protagonista, in quella modalità televisiva nella quale conta anche il rispetto del canone della linearità temporale, ma sicuramente efficace nel ricostruire una figura di intellettuale che ha segnato un’epoca e che con il suo indubbio magnetismo ha catturato il fascino dei suoi ammiratori e delle molte donne che nel corso degli anni lo hanno amato.
Essere Giorgio Strehler ha riattivato la memoria verso un personaggio centrale nella storia del teatro italiano, un rappresentante di quella cultura che nel proprio lavoro era spinto da quell’istintivo desiderio di utilizzare lo strumento culturale come volano di crescita sociale per chi solitamente non aveva i mezzi o le possibilità per accedere agli ambiti nei quali il lavoro culturale diventa esclusivo e inaccessibile. La creazione del Piccolo Teatro, il tanto desiderato figlio di Strehler come apprendiamo dalle sue stesse parole, diventava quindi un luogo di democratizzazione della cultura e cadono a proposito le parole di Paolo Grassi, che sicuramente il regista condivideva, con le quali nel 1968 tracciava i confini del lavoro che quel teatro aveva e avrebbe ancora svolto il Piccolo, in favore di quel dialogo con la città che nel tempo è rimasto così forte e così inalterato anche dopo la scomparsa dei suoi creatori: “Il Piccolo teatro brechtiano, non può parlare di «arte del teatro», ma di «lavoro teatrale» e, quindi, non può indicare una via di democratizzazione che non sia una via che guardi a tutti indistintamente i lavoratori.

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
1 (1 voto)
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