Fairytale, di Aleksandr Sokurov
Stalin, Hitler, Mussolini e Churchill vagano, smarriti, davanti ai cancelli del cielo. Il nuovo film di Sokurov è una visione che sta tra la fiaba e l’allucinazione. In concorso a Locarno 75
“La vita, nel frattempo, la vita vera degli uomini, con il loro interesse sostanziale per tutto ciò che riguardava la salute, la malattia, il lavoro, il riposo, con i loro interessi nei riguardi del pensiero, della scienza, della poesia, della musica, dell’amore, dell’amicizia, dell’odio, delle passioni, procedeva come sempre, indipendentemente e al di fuori dell’intesa o degli attriti politici con Napoleone Bonaparte, e al di fuori di tutte le possibili riforme”.
Chissà perché torna in mente questo passo di Guerra e pace, guardando Skazka (Fairytale), l’ultimo film di Sokurov. Eppure, all’apparenza, siamo in una prospettiva diametralmente opposta. Qua la “gente comune” è una massa indistinta e informe, un flusso sbandato di decomposizione, di anime dannate all’inferno e già divorate dal verme della morte. Mentre Stalin, Hitler, Churchill e Mussolini stanno lì, davanti ai cancelli del cielo, in attesa di essere ricevuti da Dio. Incontrano il Cristo e lo perdono. E poi si muovono tra la discussione e il delirio, nella babele delle lingue e nella garanzia di fedeltà dell’immagine d’archivio. Sembrano pieni, nella resurrezione promessa dal paradiso del cinema. E però sono vincolati pur sempre al bianco e nero di quel found footage, alla bidimensionalità dell’immagine, alla sua perdita di definizione, allo scarto artificiale di un ritocco grafico. Sono illusioni che a volte diventano esili e trasparenti, lasciandosi oltrepassare dalla luce come spettri. E perciò sono distanti, oltre ogni possibile passione reale, viva, vera. Sarà questo a riportare alla mente le parole di Tolstoj, ben più dell’apparizione di Napoleone, il primo imperialista della storia moderna, che fa capolino dal portone celeste, per essere poi risucchiato nell’indistinzione del tutto.
Ecco. Sokurov torna alle sue grandi ossessioni: la storia e il potere. Ma la prima, ormai, è sempre più proiettata in un’altra dimensione temporale, dove gli eventi, grandi o piccoli che siano, sembrano decomporsi e trascolorare, come in acquarello. Del resto con le incisioni del Piranesi e di altri artisti italiani che fanno da sfondo, tra quelle immagini inquiete di una Roma monumentale ma in rovina, si ritorna alla radice di un’Europa ideale, ma già eretta sulla guerra e sul sangue. Ma, soprattutto, il fatto umano, la costruzione e l’architettura diventano una specie di elemento naturale di un paesaggio più grande.
E riguardo al potere, Sokurov non ha bisogno di condannarlo o di abbatterlo. Perché vi riconosce un’entità intrinsecamente destinata alla dissoluzione, a cambiar forma e struttura in continuazione e quindi “incapace” di durare, di persistere. Sì, è infinitamente replicabile, come le amebe, ma sostanzialmente liquida e trasparente. Il che non vuol dire che non vi sia l’orrore o l’inquietudine in questa visione dantesca (o michelangiolesca). Ma è come se fosse inquadrata da una distanza smisurata.
Ecco, Sokurov sta su quel crinale sottile che separa la lucidità e la follia (forse solo Herzog, per motivi diversi, è paragonabile). Ed è già questo a renderlo un autore fuori programma, indesiderabile. Si muove lungo quella linea in cui la fiaba comincia a mostrare il suo lato oscuro, l’Ombra. Ma i suoi fantasmi si trasformano anche in figure farsesche, che si sdoppiano, moltiplicano, smarrendo l’identità. I loro discorsi “seri” (Dio, la politica, il comunismo, il fascismo) scivolano nella facezia e nell’irrilevanza, quasi nello sberleffo comico (Hitler che vuole prendere a calci nel sedere Churchill). Fino allo smarrimento più frastornante. Mentre le immagini oscillano tra il nitore e una specie di fumo sottile, una coltre dipinta che copre lo sguardo e lo costringe a distrarsi, a divertirsi. Mettendo in discussione la fede in ciò che si vede. La fede nel cinema tutto, persino. E quindi non c’è furia, non c’è condanna. Si intravede un sorriso lontano, quasi un’ironia ascetica. Che non è rassegnazione. Ma una forma estrema di resistenza.