Tra le molteplici visioni che si succedono in questa 10a edizione del far East Film, le prime a colpire sono quelle accomunate dal medesimo filo conduttore, e cioè quelle che propongono uno sguardo sul mondo interamente colorato di rosa. Opere a cavallo tra il passato e il presente, dal coreano It's not her sin di Shin Sang-ok (1959, all'interno della retrospettiva dedicata all'autore), al giapponese Funuke, show some love you losers! di Yoshida Daihachi, al cinese The Other Half di Lin Lisheng. Tre paesi, due epoche diverse, ma per tutti la stessa intenzione, quella di raccontare storie viste unicamente da un'ottica femminile. In nessuno di questi film la presenza maschile svolge un ruolo attivo: gli uomini, defunti, fedifraghi o comunque assenti, non rimangono altro che dei piccoli tasselli sullo sfondo. Tra i tre, il migliore è senza dubbio It's not her sin, il più crudele e il più rappresentativo di una società (quella coreana degli anni Cinquanta, fortemente restrittiva e maschilista). strutturato come un giallo, con un lungo flash-back centrale, il film di Shin Sang-ok ruota attorno  all'amicizia controversa tra due donne, legate da un segreto che porterà una a tentare di uccidere l'altra.
Estremamente sobrio nella messa in scena, It's not her sin è l'affresco di un mondo che ha posto le sbarre intorno ai suoi abitanti, schiacciati dal peso delle convenzioni imposte dalla società. La famiglia diventa un microcosmo dominato da meccanismi freddi e cinici, la felicità è una chimera irraggiungibile e il futuro non si annuncia di certo migliore. Come gli altri titoli della rassegna The Early Films of Shin Sang-ok (A college woman's confession, A flower in hell, A sister's garden), l'oggetto della narrazione diventa la società sudcoreana post-bellica, in un periodo di transizione tra la progressiva capitalizzazione del paese e il mantenimento di una rigida mentalità conservatrice.
Neanche il presente sembra offrire molti motivi di ottimismo: i ritratti femminili di Funuke, show some love you losers! e The Other Half sono altrettanto rappresentativi di un disagio, filtrato però in entrambi i casi da un'ottica grottesca, a tratti persino surreale. Che siano storie di sorelle rimaste improvvisamente orfane (il primo) o di mogli vedove e del loro rapporto con le figlie (il secondo), in nessun caso i personaggi sembrano riuscire ad emergere dalla situazione di stallo in cui sono rimasti intrappolati. Storie di fallimenti e di passati che riemergono, senza mai calcare la mano sul drammatico (in Funuke troviamo addirittura una sequenza strutturata come le tavole di un manga), ma anche senza riuscire ad andare sino in fondo nei discorsi affrontati: i due film finiscono così per arenarsi sulla superficie delle cose, ma costringono comunque lo spettatore a fare i conti con una situazione che è comune a
tutti, e che non ci saremmo aspettati di affrontare in maniera così costante in pochi giorni di festival.

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