Le monde est à nous: il restauro de L’odio

Dal 13 maggio al cinema in versione restaurata, ancora oggi il film di Kassovitz, carico dell’eredità che ha generato, riesce a raccontare in maniera chirurgica la società in cui siamo immersi

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“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: ‘Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene’. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.

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Ripartire da questa frase appare quasi un passaggio obbligato. Perché sono trascorsi quasi trent’anni da quando l’abbiamo sentita pronunciare per la prima volta; e perché, a partire dal 1995, il mantra con cui Vincent Cassel apre e chiude il sipario su L’odio di Mathieu Kassovitz, è risuonato senza sosta nella testa di qualsiasi appassionato di cinema, divenendo negli anni vero e proprio simbolo intergenerazionale e manifesto di un sentimento di rabbia che – specie all’interno del contesto rappresentato dal film – non ha mai perduto la propria carica dirompente.

Ragionare oggi di questo grande cult, a pochi giorni dalla sua uscita in sala dopo il restauro in 4k, significa allora raccontare un imprescindibile frammento della storia e del cinema francesi. A partire dall’influenza di quel ghigno che ancora “sporca” i muri della capitale transalpina e dal celebre equivoco audio-linguistico prodotto dal refrain di Sound of da Police di KRS-One – con cui il remix di DJ Cut Killer, posto dal regista all’interno dell’opera, ne traccia con chiarezza le traiettorie politiche e sociali.

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L’avventura metropolitana di Vinz, Said e Hubert, ritratti nel loro periferico girovagare a seguito degli scontri tra manifestanti e polizia causati dal pestaggio subito dal giovane Abdel Ichah, altro insomma non è che il puntuale resoconto degli ultimi decenni di storia delle banlieue. Fotografia in verlan (un gergo parigino) di un iperspecifico malessere popolare che fin dal 1979, cioè dall’arresto del diciassettenne algerino Akim avvenuto nel quartiere di Grappinière di Lione, ha di fatto prodotto una lunga serie di disordini succedutisi nel tempo secondo uno schema fisso e reiterato.

Pensiamo al 1995, anno di uscita de L’odio e insieme delle rivolte scoppiate tra Parigi, Marsiglia e Lione – nel generale clima di protesta creatosi a causa della politica di tagli promossa dall’allora neo premier Alain Juppé; o al 2005, esattamente a dieci anni di distanza, quando a scatenare l’ondata di proteste (durata ben tre settimane) fu la morte degli adolescenti Zyed e Bouna, folgorati all’interno di una cabina dell’elettricità nella quale si erano rifugiati nel tentativo di sfuggire alla polizia. Senza dimenticare lo scorso 27 giugno 2023, quando l’uccisione del franco-algerino Nahel da parte di un agente delle forze dell’ordine produsse la successiva escalation di violenza urbana protrattasi per circa otto giorni – dimostrazione evidente dell’estrema sovrapponibilità di situazioni diverse e temporalmente dislocate e dunque di tensioni discriminatorie che continuano a imperversare e proliferare senza tregua.

Questa assurda realtà, nella quale – ormai ormai da decenni – affogano numerosissimi ragazzi e ragazze delle banlieue – dietro ai quali, sottolinea il sociologo francese François Dubet, “non c’è nessuna organizzazione, nessun partito, nessun sindacato, nessuna moschea, non c’è niente” (forse solo il vuoto che ne avvolge l’esistenza fino all’inevitabile schianto) – è stata più volte raccontata da chi, dopo L’odio, ha provato a raccogliere l’eredità del regista d’oltralpe. Da Céline Sciamma con il suo Diamante nero del 2014 al Divines con cui Houda Benyamina ha vinto la Caméra d’Or a Cannes nel 2016. Da Vita nella banlieue (Banlieusards) del rapper Kery James ai I miserabili di Ladj Ly; entrambi film del 2019 che, più di altri – forse anche per la provenienza periferica dei rispettivi autori – hanno saputo ripercorrere i sentieri di Kassovitz e aggiornare con efficacia i suoi discorsi.

Ecco perché oggi, a fronte della scelta di riproporre in sala un’opera che, lo ripetiamo, ha di fatto segnato la sua epoca e condizionato la susseguente produzione cinematografica di stampo socio-politico, può aver senso domandarsi quale possa essere il ruolo del film francese dinanzi a una nuova generazione di spettatori che, probabilmente, nel 1995 era ancora di là dal nascere e dall’iniziare a formarsi; e che dunque, inevitabilmente, ha sempre guardato a questa pellicola come alla realizzazione su schermo (e in bianco e nero) di un grido proveniente dal passato – pur nella sua già evidenziata trasversalità semantica.

Forse, presa coscienza del panorama sociale odierno – nel quale restaurare l’odio sembra delinearsi più come programma politico che come iniziativa cinematografica (di questo d’altronde ci parlano, al di là delle banlieue, le proteste giovanili che infiammano, ad esempio, anche la quotidianità del nostro Paese) – e vista e considerata una società che, oggigiorno, appare sempre più sommersa da immagini di ogni forma e contenuto – e per lo più svuotate di forza e significato – tornare all’immagine prima, a quell’archivio che è nuovo presente, profezia e insieme sua realizzazione, può essere decisivo nell’ottica di una generale restituzione di senso e profondità.

Dopotutto, se come sistema cinema (e non solo) abbiamo ancora intenzione di fare fuoco su un mondo che non ci rispecchia, la pistola simulata da Cassel – caricata con i proiettili dell’eredità che ha generato – rimane probabilmente (seppur a distanza di 30 anni) la migliore arma a nostra disposizione. Anche perché, fin qui, non tutto è andato bene.

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