Ferite mortali
Paradossalmente grazie a un epitaffio si può risalire la china. Per l'accademico Toby Miller della New York University, i divi muscolari agonizzano ormai perché "il loro apice è stato durante la guerra fredda quando il pubblico voleva eroi macho che salvassero il mondo". La secca replica di un rappresentante della categoria come Seagal sono i 19 milioni di dollari rastrellati al box-office al primo weekend da Ferite mortali. Attenzione però: scordatevi pure riabilitazioni di film e interprete, le cui perle sono Duro da uccidere e Decisione critica. Ferite mortali è piuttosto un trattato sulle pulsioni (auto)distruttive come codice primario dell'action. Le deflagrazioni visuali sono immagini slittanti nella composizione visiva. Corpi e cose non danzano nello spazio, ma ne vengono atomizzati. Nella prospettiva stravolta, l'azione si smaterializza senza ricomporsi, visto che basta l'icona Seagal che vale metonimicamente l'azione stessa per il feticismo divistico. La moltiplicazione disarmonica degli scontri è una sfiducia totale nella coreografia che ha creato un'osmosi fra i generi occidentali e orientali. Nessun alfabeto dunque della fisicità quanto piuttosto materia e forma che non combaciano, facendo collassare il linguaggio delle pose e delle movenze insito nell'eroismo individuale delle arti marziali. Negli scontri così l'unica prospettiva è quella dell'impercettibilità spettatoriale. Uno spettacolo che è prima di tutto luogo di emergenze dell'azione. In un registro crepuscolare che subordina l'eroe a una donna, lo fa affrontare colleghi corrotti, e scendere a patti coi pusher, per fargli frequentare terapie di gruppo, come argine degli impulsi collerici intrinseci alla diegesi. |