Festival dei Popoli 63 – Modelli di interazione con il mondo

Il concorso internazionale del festival fiorentino parla di coesistenza, di un pianeta stanco ma ancora ricchissimo ed affascinante, guarda al cielo ed alla terra, vede le ferite e cerca di lenirle

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Il concorso internazionale del Festival dei Popoli accoglie quanto di meglio si è visto nei festival documentari di tutto il mondo, raccoglie suggestioni e tanti motivi di riflessioni. Tra i lungometraggi, Eami di Paz Encina, già premiato con il Tiger Award a Rotterdam, è un’indagine eccitata di una terra primigenia, fusa nell’alba dagli antenati e protesa ad un equilibrio instabile. Nel fragore degli elementi, del quale si percepisce la potenza sopratutto grazie allo straordinario lavoro compiuto sul sonoro, si riversano le frasi di quella che potrebbe essere considerata una guida, lo spirito narrante di un connubio vecchio di secoli. L’abisso libero del principio urla nella cenere, soffia tra gli alberi e solleva le foglie, annuncia la furia ed il cammino da compiere per giungere ad un nuovo inizio. Quel percorso sussurra le orme da seguire, il sentiero sacro della guarigione, frequentato dal canto incontaminato degli animali. How to Save a Dead Friend di Marusya Syroechkovskaya è un documentario girato in Russia sulla vita di due adolescenti inquieti in una società disinteressata ai loro bisogni, e vittime di autolesionismo dovuto alla depressione. Un quadro nichilista, di abbandono, che non rinuncia a mostrare il dissenso rivolto al governo di Putin, le proteste di piazza, gli slogan disperati, ma non può fare a meno di mostrarne i limiti, e l’assenza di raccordo tra un’ideale collettivo e la crisi quasi irreversibile a livello individuale di una gioventù votata all’autodistruzione. Considerata tutto sommato un’alternativa per dimenticare le brutture di una realtà fuori dalla propria portata.

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Fragments from heaven di Adnane Baraka unisce il cielo e la terra in un unico sogno. Mohamed è un uomo che cerca residui cosmici nelle regioni sud orientali del Marocco in una zona famosa per le piogge di meteoriti. Setaccia palmo a palmo il terreno giorno dopo giorno raccogliendo sassi, con la speranza di trovare un pezzo di universo abbastanza grande da cambiare la propria vita. Ed altri insieme a lui, spinti dalla necessità e dal bisogno di un aiuto dal cielo. L’altro protagonista è uno scienziato, Abderrahmane, che quelle pietre le studia, le interroga, le analizza dal punto di vista teorico. Quei granelli di materia oscura diventano per lui il punto di partenza sull’origine del mondo. Il film è un orizzonte elastico di polvere e stelle dilatato sui passi dei nomadi, una pista fatta di niente, escluse labili tracce di antichi segreti. Una memoria primordiale plasmata dal nulla, fonte di desiderio e ricchezza, ora come allora chiamata a riempire un vuoto di scintille, frenetiche e vitali, e sbocciare rigogliosa in luogo di un arido ed immobile avvenire. Due dei lungometraggi selezionati per il concorso internazionale parlano della Yugoslavia, con tematiche e cronologia tuttavia distinte. Il primo è The Eclipse di Natasa Urban, che parte da un evento, l’eclissi solare avvenuta il giorno 11 Agosto del 1999, legandolo al destino di un paese distrutto in quegli anni dalla guerra civile, e da lì in poi sarà diviso in tanti pezzi orgogliosi, diffidenti gli uni dagli altri. Dalle immagini raccolte in un contesto familiare emergono racconti raccapriccianti, gli orrori della pulizia etnica ed i nomi dei macellai militari e politici responsabili di tanto odio e violenza. Tutto arrivato improvvisamente a sconvolgere delle esistenze normali, tranquille, per farle piombare dentro un incubo di stragi e massacri di innocenti. The Eclipse vive dei contrasti che vengono creati dai ricordi, inquinati dalle parole, dirompenti non tanto nei toni e nell’espressione sempre piuttosto pacata. Rese insopportabili dal loro carico di angoscia e dai macabri significati che nascondono sotto un tappeto confezionato alla buona. Another Spring di Mladen Kovacevic sceglie invece di raccontare l’attualità prendendo a pretesto l’ultima epidemia di vaiolo registrata in Europa nel 1972 proprio in Yugoslavia. Il regista di serve di materiale d’epoca per ricostruire i passaggi dell’infezione, avvenuta in Iraq, e poi rapidamente dilagata nel paese al suo ritorno, soprattutto per l’ignoranza riscontrata nel gestire il caso, sottostimando, anzi trascurando del tutto, la notevole contagiosità del virus. Si affida al potere delle immagini per descrivere la malattia, sfigurate dalle pustole e dall’agonia delle situazioni più gravi. And then one morning, another spring is there outside my door cantava Nina Simone. Ed il film, così come il brano, aspetta il ritorno della primavera, passa dal freddo e la morte, per arrivare al principio di un nuovo inizio. L’ultimo della lista è Matter Out Of Place, del regista austriaco Nikolaus Geyrhalter, presentato al Festival di Locarno, che parla della produzione di rifiuti e, soprattutto, i sistemi che sono adibiti al loro smaltimento nel globo terrestre.

E veniamo ai mediometraggi. It Is Night In America è l’esordio di Ana Vaz. Racconta di uno strano ma naturalissimo connubio, quello degli animali che vivono a ridosso di un contesto urbano, quelli del giardino zoologico di Brasilia. Un lavoro notturno, reso misterioso da un persistente mugugno di tempesta, caotico nel cancellare le distanze e restituire un quadro indifferenziato di coesistenza con un sound design distopico ed una fotografia astratta. In Search of Averroes di João Cristóvão Leitão è invece un quadro familiare composto combinando riprese amatoriali e vecchie fotografie con estratti di opere filosofiche di Averroè, ragionando soprattutto sulle discussioni da lui sollevate riguardo la vicinanza o la distinzione tra commedia e tragedia. Un lavoro in pieno stile portoghese, dai tratti metafisici, che guarda al reale come la chiave per ottenere l’accesso in territori inesplorati. Ed in quei passaggi, tra il vuoto del presente ed il passato, trova una continuità magica, conservata a servizio dei posteri. Drifting di Somnur Vardar parla di speculazione edilizia ad Instanbul in Turchia attraverso la storia di due immigrati curdi, Ferhat ed Emrah, costretti, nonostante l’ambizione all’insegnamento, a lavorare nel campo delle costruzioni. Descrive le terribili condizioni di vita dei dormitori, della schiavitù dell’ingaggio, la famiglia lontana, mentre attorno la città sembra destinata ad una espansione senza fine ed appare come un unico grande cantiere. Pur senza rimandi diretti, il film fa pensare ai Mondiali in Qatar ed allo sfruttamento di migliaia di operai morti e sottopagati per realizzare strutture avveniristiche inserite in contesti con altre necessità. Enez di Emmanuel Piton è ambientato in Francia. L’Île de Sein è infatti situata in Bretagna, nella sua parte nord occidentale L’atmosfera è quella di un film di fantasmi, quelli dei pescatori morti in mare, ed infatti questo è un suo ritratto burrascoso ed irruento. Un mare dotato di tanta forza, in grado di travolgere qualunque cosa e di sommergere e cancellare. In tale cornice maestosa e temibile l’ essere umano ha un ruolo di comparsa, è un mal tollerato ospite, eppure resta testardo frequentatore dell’abisso. Fuku Nashi di Julie Sando è la storia di un incontro. Due parenti lontane, dopo tanto tempo, si incontrano e vivono insieme per un periodo. Superati l’imbarazzo e la diffidenza il racconto si apre alle confidenze, al familiare, ed i dialoghi guadagnano in profondità. Passano da un conversazione superficiale a qualcosa di meno elusivo, prendono largo gentilezza e complicità, e la memoria terreno comune di partenza per trovare una vera intesa. Un film leggero come la pioggia che continua a scendere, coprendo i rumori di un mondo lontano. Adria di Alessandro Garbuio vuole raccontare la fine di un sogno, quello che aveva Adriano Olivetti, quando ad Ivrea al successo industriale aveva affiancato un ambizioso progetto sociale. Esperimento considerato fallito, eppure negli occhi resta la grandiosità degli edifici aperti alla luce, e cresce il rimpianto. Gli spazi immaginati come una culla di progresso e civiltà, nonostante l’incuria e l’abbandono, conservano delle linee di fascino, e lottano contro il tempo nella loro cadente bellezza. La nostalgia delle vecchie macchine è anche un modo di avanzare un confronto con un presente preoccupato solo di aumentare i profitti e totalmente avulso dall’ambiente in cui è inserito. Di passi avanti se ne vedono ben pochi.

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