FESTIVAL DI ROMA 2011 – "Grazia e Furore", di Heidi Rizzo (Extra-L'altro cinema)


Lecce-Bangkok e ritorno. Ancora il Documentario come testimone attivo di tutti i Sud del Mondo, di storia e storie che sfuggono alla fiction e al grande budget. Due ragazzi salentini imparano un’antica arte marziale thailandese (il Muay Thay) e vanno a combattere in una terra esotica per poi portare il loro bottino (umano e sportivo) in Puglia: una silenziosa e opportuna lezione di contaminazione

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Grazia e Furore

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Lecce-Bangkok e ritorno. Ancora il Documentario come testimone attivo di tutti i Sud del Mondo, di storia e storie che sfuggono alla fiction e al grande budget, di grazie e furori da inquadrare fugacemente. E allora succede che un acclamato regista come Edoardo Winspeare accolga l’idea di produrre un film sui due fratelli Siciliani – campioni mondiali dell’antica arte marziale Muay Thai e gestori di una palestra nel capoluogo salentino – per poi affidare la regia ad una giovane ma esperta operatrice (Hedi Rizzo) che li “insegue” in sei giorni della loro vita sparsi tra il 2009 e il 2010. Il risultato è un interessante esperimento di docufiction, dove l’impatto dello scontro fisico tra i corpi tenta ostinatamente di essere sublimato da un sostrato spirituale. Un documentario che tenta insomma di aspirare a molto di più della semplice testimonianza, concentrandosi in 3 luoghi: la Thailandia raggiunta in due distinti viaggi dove combatteranno prima Luca e poi Fabio; la palestra dove Fabio insegna il Muay Thai ad altri giovani e dove sua moglie insegna la sua altrettanto nobile arte che è la danza; infine la casa e le strade leccesi dove abitano i genitori e i figli. Niente di più cinematografico e “sceneggiabile”: la lotta, l’avventura, la famiglia. Ma paradossalmente questo film è essenzialmente “regia”: Heidi Rizzo sa bene cosa voglia dire ritmo, tempo di ripresa, cogliere il momento in 65 minuti che azzerano ogni tempo morto e regalano solo attimi salienti dell’avventura umana e sportiva dei due. Una regia che si appropria di molti stilemi linguistici del cinema di fiction facendone un punto di piacevole straniamento: musica tradizionale salentina nelle strade thailandesi e montaggio alternato lotta/danza tra Oriente e Occidente, a puntellare il percorso umano dell’intera famiglia Siciliani. “Una famiglia sempre in viaggio, e menomale!” come sottolinea Fabio. L’influenza di Winspeare, poi, si nota soprattutto nell’evidente afflato antropologico che anima l’inquadratura: vite colte nella loro apparente “quotidianità” che ignorano una macchina da presa sempre nel vivo dell’azione.  Vite che si fanno testimoni di riflessioni universali sul concetto di contaminazione: di stili, idee, cibi, religioni…in fondo un ragazzo salentino che impara un’antica arte orientale e va a combattere in una terra esotica per poi portare il suo bottino in Puglia è una silenziosa e opportuna lezione di contaminazione proficua. Di  quella “danza” tra interiorità e fisicità insegnata dal vecchio maestro thailandese Sangtiennoi  Sor Rungroj, che qui accoglie col sorriso Fabio e Luca nel loro sogno di bambini/guerrieri a Sud-Est del mondo.

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