FESTIVAL DI ROMA 2012 – “Judge Archer (Liu Baiyuan, giudice arciere)”, di Xu Haofeng (CinemaXXI)

judge archer

Dopo The Sword Identity, il movimento riassume tutta la propria importanza e pienezza, torna a esprimersi nella concretezza corporea dei gesti. Permangono i vuoti, ma in un dialogo costante con i pieni. Come se ogni movimento venisse parcellizzato, scomposto in una serie di linee e traiettorie e poi ricostruito in un’altra composizione. Il cinema di Xu sembra diventare cubista

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judge archerIl giudice arciere, secondo tradizione, è chiamato a dirimere le controversie tra le varie scuole di arti marziali. E proprio il nuovo giudice, Shuangxi, è chiamato a riparare un’ingiustizia e a vendicare un torto subito. Si ritrova così nel bel mezzo di un conflitto tra maestri, frutto di varie tensioni politiche tra i signori della guerra.

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È il 1920. Il quadro storico non è di poco conto, considerata la precisione strategica di Xu Haofeng, che, come già nel precedente The Sword Identity, concentra lo sguardo su un punto di rottura, quello di massima tensione tra il prima e il dopo, tra l’etica del passato e le traiettorie del futuro. Lì la “purezza” degli stili tradizionali doveva confrontarsi con la contaminazione dell’altro, con la sfida eretica di una spada giapponese. Qui le nuove scuole d’arti marziali, rinate dopo secoli di appannaggio esclusivo dei religiosi, devono fare immancabilmente i conti con la loro residualità rispetto alle trasformazioni della storia, alla civiltà della bomba. Ma è pur vero che quest'attenta contestualizzazione passa in secondo piano rispetto alla costante riflessione teorica sui codici e il linguaggio del genere.

 

In The Sword Identity, Xu Haofeng aveva compiuto un radicale lavoro di rarefazione e astrazione, filmando una sorta di wuxia negato, poggiato sul vuoto del fuoricampo, spogliato della consueta vertigine coreografica. Eppure questa negazione non valeva a contraddire l’essenza stessa del genere. Semmai quell’evidente stilizzazione, quella bidimensionalità ricercata della composizione, quell’eclisse dei movimenti rispondeva in altro modo a un’idea di cinema come artificio: la costruzione, da spettacolare, diventava mentale. Ora, con Judge Archer, il movimento riassume tutta la propria importanza e pienezza, torna a esprimersi nella concretezza corporea dei gesti. Permangono i vuoti, ma in un dialogo costante con i pieni. Come se ogni movimento venisse parcellizzato, scomposto in una serie di linee e traiettorie e poi ricostruito in un’altra composizione. Il cinema di Xu sembra diventare cubista. Ancora poggiato su un piano intellettuale, quindi. Ma ritrova un magnifico, paradossale aggancio con la vita, nell’istante in cui mostra come il Tutto sia sottoposto a una stilizzazione forzata.

I rapporti, persino (o soprattutto) quelli amorosi nascono, si sviluppano e si risolvono secondo una logica marziale. L’intera gamma dei comportamenti si traduce in una sequenza di mosse. Se il vecchio Kuang Yimin prende e annusa una pera ogni mattina e perché il profumo allena il “soffio”. Ogni contatto, con gli altri, con gli oggetti, risponde all’espressione di una tecnica. La vita stessa diventa una tecnica, almeno finché questa complessa meccanica non torna a sciogliersi nuovamente nell’immediatezza delle reazioni. Xu Haofeng costruisce, quindi, un mondo a parte, retto da un’altra sintassi e da un’altra logica. Un universo in cui il gesto risponde, senza contraddizioni, a un’etica e a un’economia. Lo “stare al centro” del giudice arciere è ovviamente un problema di equilibrio. Come conservare questo equilibrio in mezzo al tumulto degli eventi e delle passioni, alle trasformazioni della Storia e alle battaglie dei cuori? Come posizionarsi di fronte agli altri e a se stessi? Ogni mossa prevede uno studio. Ma necessita, per essere applicata, di una valutazione e di un scelta. E ogni scelta deve poggiare su un’ispirazione. L’istinto ritorna a reggere la freccia. E il controllo deve fare i conti con gli abissi della libertà e della verità. Ma tutto questo, si sa, è un problema d’altri tempi.

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