FESTIVAL DI ROMA 2013 – Tsui Hark e Olivier Assayas, play with fire


Olivier Assayas
, giunto a Roma per consegnare il Maverick Director Award del Festival a Tsui Hark, intrattiene una chiacchierata con il maestro hongkonghese in coda alla proiezione di Young Detective Dee

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Olivier Assayas, giunto a Roma per consegnare il Maverick Director Award del Festival a Tsui Hark, intrattiene una chiacchierata con il maestro hongkonghese in coda alla proiezione di Young Detective Dee. Nel suo passato da critico cinematografico, Assayas fu tra i primi ad amare, studiare e divulgare la nuova generazione di geniali cineasti che partiva da Hong Kong, curando un numero speciale dei Cahiers du Cinéma che ne raccontava per la prima volta in Occidente la storia. 

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Assayas: Quando i Cahiers mi mandarono a Hong Kong per curare un intero numero dedicato alla storia e al presente dell’industria del cinema dell'isola, scoprii davvero l’intera new wave dei giovani cineasti locali, autori che avevano studiato all’estero ed erano tornati per poi modificare radicalmente le strutture degli Studios dell’epoca. E Tsui era a capo di questa avanguardia. Stava girando Zu, una pietra miliare, un grosso film di effetti speciali, il primo mai girato a Hong Kong, legato profondamente al mondo magico della tradizione, della letteratura e dell'immaginazione cinese. E solo ora possiamo capire come lui si fosse posto per primo la questione dell’accessibilità degli effetti speciali, aprendo il mondo allo spazio tutto nuovo del cinema cinese, sfidando il monopolio americano del film fantastico realizzato su larga scala. Per me Zu è il primo passo di tutto quello che ha portato al Young Detective Dee che abbiamo visto qui al festival. Lo stile energico di Tsui, la reinvenzione moderna del classico, le inquadrature astratte e il montaggio veloce, tutto quello cioé che chiunque, me compreso, ha cercato di rubargli, in Cina ma anche a Hollywood, insomma il suo approccio profondo al mezzo e la sua urgenza, probabilmente dovranno sempre qualcosa all'atmosfera che pervase Hong Kong nel periodo in cui si preparava a tornare di nazionalità cinese, perdendo la sovranità del Regno Unito di cui era stata colonia sino al 1997.

Tsui Hark: Quello è uno dei tanti motivi per cui secondo me il nostro cinema dalla fine degli anni ’80 è diventato così pazzo, vitale, e prolifico: il pubblico aveva bisogno di molta energia per affrontare la sfida. La domanda fondamentale che le nostre storie restituivano era diventata: cosa sarà di noi? Già nei primi anni '80 avevamo attraversato un periodo da "giovani arrabbiati": eravamo tutti delusi dalla fine che avevano fatto le nostre ambizioni di cineasti, la nostra carriera in cui eravamo stati buttati senza alcuna esperienza ad avere a che fare con il mercato del grande schermo, dopo l'apprendistato in televisione negli anni tra il '76 e il '79, quando l'ambiente era pieno di opportunità lavorative. Iniziare in tv era come frequentare una scuola di cinema per molti giovani registi di Hong Kong che volevano sperimentare con le tecniche narrative all'interno di un sistema produttivo veloce e industriale: il ritmo frenetico a cui si giravano gli episodi delle serie, che dovevano essere pronti in 3-5 giorni, fu per tutti noi un esercizio. La grande frustrazione portò però al mood disilluso e nero che attraversa film come il mio terzo, del 1980, Don't play with fire, che infatti ebbe anche problemi con la censura…

Assayas: ecco, Don't play with fire è stato Il primo film dei tuoi che io abbia mai visto, in vhs! Ricordo che ne rimasi profondamente impressionato: era radicale, sperimentale, violento, vigoroso in un modo che non avevo mai visto prima in un action e che ancora non riuscivo a comprendere del tutto. Uno poteva anche intuire che avresti di lì a poco trasformato per sempre il panorama del cinema cinese e dunque di quello mondiale, anche se quella non era un’epoca in cui si riuscivano ancora a vedere con coerenza e non soltanto in maniera casuale i film di Hong Kong, seguire il cinema cinese al di fuori dei festival, dove veniva programmato grazie soprattutto a divulgatori come Marco Muller. Poi ci sono stati gli anni '90…

Tsui Hark: E’ paradossale come un’isola alla fine così piccola come Hong Kong abbia prodotto artisti che è possibile ritrovare in un modo o nell’altro sparsi oggi davvero in giro per tutto il mondo, vero? Quando Hollywood iniziò a chiamarci, appunto negli anni '90 dell'handover, contribuimmo a rendere profondamente instabile anche l’industria americana! Ho cercato di spostarmi sempre, muovermi lontano da quello che avevo già fatto, con l’ambizione di lasciare qualcosa che restasse al di là del tempo concesso alla mia vita. Come se l'aspetto definitivo e incontrovertibile del passaggio alla Cina ci avesse instillato sottopelle la paura di restare impantanati, incastrati in un'unica definizione. D'altra parte, io mi proposi come regista alle emittenti televisive per lavorare come documentarista, nelle redazioni giornalistiche. Ma finivo puntualmente richiamato per girare questa o quella serie tv: le prime volte ero convinto si trattasse di un errore, adesso più di 35 anni dopo mi chiedo se invece non si tratti di destino.

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