FESTIVAL DI ROMA 2014 – Quando eu era vivo, di Marco Dutra (Mondo Genere)

Quando eu era vivo

Si evince la mano della co-sceneggiatrice Gabriela Amaral Almeida, così abile già nel corto A Mão que Afaga, a mostrare l’agghiacciante manifestarsi della Saudade domestica e quotidiana, lasciandola respirare tra ironia e disincanto. Da parte sua Marco Dutra sembra aver concesso al suo immaginario analogico-digitale di raggiungere un’emancipazione autoriale che parte in sordina, inciampa e timidamente si risolleva.

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Dopo Trabalhar cansa, realizzato in collaborazione con Juliana Rojas, il giovane regista brasiliano Marco Dutra sceglie il genere thriller per disfare e rintrecciare le trame oniriche del suo lungometraggio Quando eu era vivo. Ispirato al romanzo di Lourenco Mutarelli A Arte de Produzir Efeito sem Caus, il film racconta il ritorno nella casa paterna di Junior (Marat Descartes), un uomo di mezza età che, perduti lavoro, moglie e figli, ripiompa in un passato lontano e irrisolto. Il suo ritorno in famìlia si apre così nell’oscurità, accompagnato da un’angosciante doglianza d’abbandono che, gridata e condivisa, diviene presagio. Il signor Zé (Antonio Fagundes), padre di Junior, accoglie suo figlio come un oste sorpreso difronte a dei viandanti nottambuli: cortese e impacciato. Mostra lui la vecchia casa vestita di nuova vita, riscaldata da uno spettro di luci fredde; innaturali, alle quali Junior reagisce rimanendo immobile nella sua stitichezza sentimentale.

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Chi è quell’uomo in vestaglia, intruso e padrone di quello che un tempo era il mio ricovero? Questa la domanda che sembra tenersi a mente, mentre interpreta il suo ruolo da figlio, in parte o completamente orfano. L’unico contatto che gli procura conforto è quello con Bruna (Sandy Leah), la giovane e bella musicista a cui il signor Zé affitta la stanza del secondogenito Pedro (Kiko Bertholini). Il dolore e l’angoscia di Junior si stratificano progressivamente assieme alla sua afasia: il ricordo della compianta madre e del fratello, rinchiuso in altrove fisico e mentale, sussurrano rinnovate colpe e disagi che lo porteranno ad una pilotata ricongiunzione. Pezzo per pezzo, ricordo su ricordo, Junior mette in scena il macabro spettacolo familiare, bruscamente interrotto anni prima, riesumando dalla polvere la contorta figura materna.Una Signora Morte, maniacalmente restaurata, che appare reincarnazione del primo Orisha Oblatá, Dio della testa, dei sogni e del pensiero.

 

Junior sembra attraversare, avvolto da una fitta ed ispida coperta d’ombra, le tre vie spirituali delineate dal mistico Georges Ivanovi? Gurdjieff, lavorando prima sul corpo, ricoprendolo di vecchi abiti infantili, poi sul sentimento, proiettando in Bruna la figura materna, ed infine sulla mente, annientata e compromessa dall’assenza di un rapporto genitoriale, sordo e ancora miope. Nell’esplicarsi filmico della sceneggiatura si evince la mano della giovane regista e co-sceneggiatrice Gabriela Amaral Almeida, così abile già nel corto A Mão que Afaga, a mostrare l’agghiacciante manifestarsi della Saudade domestica e quotidiana, lasciandola respirare tra ironia e disincanto. Da parte sua Marco Dutra sembra aver concesso al suo immaginario analogico-digitale di raggiungere un’emancipazione autoriale che parte in sordina, inciampa e timidamente si risolleva.

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