Il punto d’origine è noto: un poema epico del 1872 (“El gaucho Martin Fierro”) che racconta la difficile situazione nella pampa argentina dove si consumano duri scontri fra la borghesia terriera, in cerca di nuove terre da sfruttare, e i nativi che difendono i propri possedimenti, secondo un modello narrativo che chiunque può riconoscere come affine a quello del western americano. Per proteggersi dagli indios, i ricchi proprietari ottengono dal governo la possibilità di arruolare come milizia i gaucho, ovvero i mandriani della pampa, anche contro la loro volontà. Martin Fierro inizialmente è uno di questi forzati che però ben presto si oppone allo sfruttamento indiscriminato e diventa un fuorilegge, dando vita a una figura leggendaria.

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Il lungometraggio di Liliana Romero e Norman Ruiz omaggia compiutamente questo eroe, a metà strada fra storia e mito, presentandocelo mentre è coinvolto in uno scontro finale che, dopo tre anni di latitanza e una vita ormai distrutta, dovrebbe porre fine alle sue tribolazioni. Il ricorso alla narrazione in flashback come momento esplicativo per capire i presupposti del duello si articola nel segno di una normalizzazione: stabilita cioè la natura mitica dell’eroe, il passo successivo è scoprire la sua umanità, la sua natura di mite mandriano e padre di famiglia, anche disposto a sopportare i sei mesi di arruolamento pur di poter in seguito tornare libero nella sua proprietà. Piccoli segnali di un’epica che si va dipanando lentamente sono le amichevoli gare a cavallo o gli ironici duelli musicali con gli avventori delle locande, che sembrano simpaticamente omaggiare e allo stesso tempo demistificare lo stereotipo del macho latino amante del ritmo. Curiosa scelta che si pone in continuità con lo stile visivo estremamente stilizzato, che sembra guardare più alle sperimentazioni dei format di Cartoon Network (pur con i dovuti distinguo pensiamo a certe opere di Genndy Tartakovsky) che al classicismo un po’ barocco sul quale l’epica necessariamente si poggia. I corpi e le figure non sono dunque evocativi e fieri, ma anzi sgraziati ed essenziali, mirano a restituire i tratti salienti dei singoli personaggi e la mescolanza di 3-D e disegno tradizionale, nel conferire profondità agli ambienti, appiattisce le figure, ridotte a sagome di carta prive di particolare fisicità.

Il lavoro di “asciugatura” compiuto da Romero e Ruiz riesce in questo modo a esaltare l’umanità dei caratteri e la loro vasta gamma di emozioni e a imbastire un interessante gioco sugli stereotipi che dice della consapevolezza metanarrativa dell’operazione, orientata naturalmente verso un graduale ma implacabile approdo al mito. A questo è dedicata l’ultima parte, quando in fondo lo stesso Fierro si renderà conto di aver tracciato una via che un giorno porterà alla creazione di una nazione libera dai legacci imposti da governanti e affaristi corrotti. La progressione è condotta con molta cura e permette allo spettatore di immergersi bene nella vicenda narrata, di assaporare i vari registri narrativi che passano dall’avventuroso, all’ironico, fino al drammatico, arrivando infine a commuoversi per l’idealismo che circonda questa figura.

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