Genesis 2.0, di Christian Frei e Maxim Arbugaev

Un viaggio fantastico e allucinante, a metà tra l’utopia immaginifica e la distopia pessimista. Un film compiaciuto della bellezza dei luoghi, forse anche della bellezza delle anime che racconta

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Le isole della Nuova Siberia sono un luogo remoto e fantastico, meta di un viaggio straordinario e allucinante, un’ambientazione che potrebbe stare a metà tra l’utopia immaginifica e fiduciosa di Jules Verne e la distopia pessimista di Cormac McCarthy. Ma le isole della Nuova Siberia galleggiano lì, in quel Mare Artico sempre meno ghiacciato e sempre più mare. È da questo scenario così desolato, ma come sempre accade, anche ricco di sorprese e fonte di immaginazione, che lo svizzero Christian Frei coadiuvato da Maxim Arbugaev, parte per il suo racconto che incrocia le tradizioni e la scienza, le superstizioni e le regole della vita, l’utopia e la distopia.

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Da una parte i cacciatori di zanne di mammut i giganteschi animali ormai estinti da migliaia di anni che ancora, allo scongelarsi del permafrost, regalano agli uomini i loro resti per un desiderio di ricchezza, di benessere e di orgoglio nel detenere una loro zanna; dall’altra il tema difficile ed eticamente discutibile della clonazione e della manipolazione genetica come nuova frontiera, evento mediatico, nuova religione laica che si assesta in una gara tra coreani e russi entrambi Paesi dove il passo degli scienziati ha un’altra marcia e già altri obiettivi. L’incrocio tra queste due storie sta nella possibile clonazione del mammut peloso per dare al mondo una svolta e un’altra impronta. La ricerca e la tradizione sembrano trovare questo punto di incontro e Frei prova ad indagare su questi due mondi non troppo lontani e funzionali l’uno all’altro in cui il sangue ancora vivo che sgorga da una carcassa di mammut conservata dal gelo da migliaia di anni, sa attualizzare il tempo remoto in una sequenza che pochi cineasti hanno potuto ottenere. È quindi indubbio il fascino che, per ragioni diverse, le immagini sanno trasmettere per essersi trovati lì davanti a ciò che è sconosciuto e che si svela in quel graduale e inatteso evento segreto per i nostri occhi.

Più interessante nella parte degli esterni, sugli scenari desolati della Nuova Siberia dove l’incommensurabile arida bellezza dei luoghi accompagna la ricerca dei cacciatori di zanne incrociando la scienza alla superstizione, la tradizione con il desiderio di benessere che le zanne possono offrire a chi le trova visto l’alto valore sul mercato dell’avorio, più episodiche, invece, le parti del film in cui la macchina da presa fa incursione nei laboratori della scienza. Qui la clonazione dei cani, è ormai un fatto comune e diffuso che si ottiene con una spesa di 100.000 dollari, e gli scienziati guardano a questa sperimentazione già come fosse il passato, impegnati come sono catalogare il dna di ogni forma vivente immagazzinando tutto nei server che a decine occupano gli spazi segreti dei laboratori. Una scienza che silenziosamente si fa detentrice del potere, una scienza che come ogni ricerca diventa autarchia del possesso di dati con i quali, potenzialmente, ricreare la vita, quella buona, ma anche quella cattiva.

È in questa prospettiva che il film diventa più vicino alla scienza che alla fantasia, in questo sguardo al futuro in cui sembrano avverarsi le predizioni di quegli scienziati con una fiducia illimitata nella ricerca senza limiti o di chi, anche nel cinema o nella letteratura e ormai molti anni fa, si è cimentato nell’immaginazione del futuro come terra sconosciuta nella quale il diritto è dettato dalla potenza, piuttosto che dai principi di solidarietà e di umanità che conosciamo.

Genesis 2.0 sembra saltare queste conclusioni e si fa contemplazione dei due scenari in cui si svolgono i fatti. Forse il suo limite è proprio di non avere trovato in questa doppia anima che possiede, un incrocio definitivo e finalizzante rispetto agli assunti. Forse una posizione prettamente “artistica” e quindi presunta come asettica ha impedito una ricerca ulteriore in questo senso. Ci si domanda, ad esempio, a cosa serva clonare i mammut in un mondo in cui la fusione dei ghiacciai mette a rischio la vita sul pianeta a cominciare da quella del genere umano. Si vuole dire che Frei e Arbugaev, sicuramente arditi nell’immaginare un film su due fatti così straordinari come la ricerca scientifica e la ricerca dei resti dei mammut, eventi che congiungono passato remoto, presente e un futuro quasi a portata di mano, evitano qualsiasi prospettiva sugli effetti di questa ricerca scientifica che si avvia nelle segrete stanze di laboratori inaccessibili, di questa dimensione superomistica che chiede e pretende il tracciamento genetico di uomini, fauna e vegetali per detenere un potere non immaginabile.

Si tratta di etica e di prospettive future. Questa scienza, sotto il controllo delle multinazionali, dei governi e degli eserciti, fa un po’ paura e infatti già i cultori di questa fede propongono la clonazione e la ri-produzione di una nuova vita, un nuovo mondo che rischia però di essere solo a dimensione dei privilegiati per nuovi assestamenti del potere nelle società future. Frei e Arbugaev sfiorano il tema, ma sorvolano su questi nodi cruciali che il suo stesso film propone, abbagliati da due storie straordinarie e irripetibili. Si tratta forse di domande e risposte implicite che tali restano e in fondo l’artista non se ne deve interessare. Può darsi, ma lo sguardo implica una prospettiva e quindi un giudizio, implica il mettersi in gioco, implica anche un certo coraggio come il cinema di questi anni ci ha insegnato anche attraverso quello “non fiction” da Wiseman a Herzog per citare due figure diremmo gigantesche nel settore. Arbugaev e Frei restano solo contemplativi, neutrale come la Svizzera d’origine di Christian Frei e la segreta bellezza estetica del film, soprattutto quando si fa affascinare dalla tundra desolata delle isole, sembra confondersi con una punta di estetismo un po’ fine a sé stesso.

È forse questo che fa di Genesis 2.0 un film compiaciuto della bellezza dei luoghi, forse anche della bellezza delle anime dei suoi cacciatori, ma che non cattura l’immaginario lasciando lo spettatore nella freddezza delle isole della Nuova Siberia, un po’ attonito da tanta scienza che dimentica l’umanità e la ricchezza che già esiste e che andrebbe difesa senza doverne inventare per forza una nuova.

 

Titolo originale: id
Regia: Christian Frei, Maxim Arbugaev
Distribuzione: Trent Film
Durata: 113′
Origine: Svizzera, 2018

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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