Il calciatore, un ritratto del XXI secolo
La figura del calciatore è una delle più sovraesposte mediaticamente e, di conseguenza, continuamente raccontata. Una breve panoramica sul come e il perchè il cinema senta l’esigenza di raccontarla.
“L’io è una storia fittizia che complessi meccanismi della nostra mente costantemente elaborano, aggiornano, riscrivono. C’è un narratore nella mia mente che spiega chi sono, da dove vengo, dove vado e cosa sta accadendo in questo istante. (…) La gente si domanda «Chi sono io?» e si aspetta che le venga raccontata una storia. La prima cosa che vi serve sapere su voi stessi è che non siete una storia”.
Yuval Noah Harari in 21 Lezioni per il XXI secolo.
“E allora cosa siamo?”, verrebbe da chiedersi dopo aver letto questo breve passaggio scritto da Harari. Secondo lo storico israeliano, noi siamo una serie di frammenti, di emozioni, di sensazioni corporee. Poi, nell’atto più umano che ci sia, queste vengono messe in fila, rese coerenti all’interno di una storia. Perché siamo animali narratori, ci dice Harari, e il nostro impulso a narrativizzare deriva dal nostro istinto di sopravvivenza, dalla necessità di organizzarci.
Oggi la narrazione di noi stessi ha subito un’inedita e repentina accelerazione. Tanto da correre il rischio di dimenticarsi che non si coincide con quel racconto. Pensiamo ad una figura chiave della nostra contemporaneità come quella dei calciatori. Continuamente narrati dagli altri, con conferenze stampa pre-partita, dichiarazioni fuori dal campo d’allenamento, interviste coi giornali, interviste video alla fine del primo tempo, dopo la fine della partita. Narrati, ormai, anche da sè stessi con autobiografie, post e storie sui social (o anche combinando le fonti: è di questi giorni la notizia della prossima uscita di una serie tv tratta dall’autobiografia di Marco van Basten). Di fronte ad una sovraesposizione mediatica così estrema è ancora più facile non ritrovarsi tra quei frammenti o identificarsi fin troppo con una storia che li metta in fila.
Non che non ci siano scampoli di verità, in quelle narrazioni. Alex Infascelli nel suo nuovo documentario Mi chiamo Francesco Totti (disponibile su CG Entertainment e dal 16 Novembre su Sky Cinema) ne è consapevole. Per questo, la scelta della voce narrante affidata al suo stesso protagonista sembrerebbe guidata dall’intento di scavare in quel marasma di immagini per inverarle o correggerle. E questo può farlo Totti stesso, visto che appare estremamente convinto della sua storia. Tanto da prestarsi agilmente al teatrino mediatico, arrivando a posare nello Stadio Olimpico vuoto in inquadrature che sembrano tratte direttamente da un servizio pre-partita di Sky. Nonostante i punti di contatto con la narrazione mediatica costruita attorno all’ex capitano della Roma non manchino, quello di Totti resta un racconto in qualche modo indipendente. Un racconto simile, ma non uguale.
Il ritratto che il cinema fa dei calciatori è spesso, infatti, in diretta competizione con quello che ne fanno i media televisivi, nonostante spesso lavorino con gli stessi frammenti. Questi tendono a privilegiare l’ambito sportivo piuttosto che umanistico: le intemperanze di un giocatore sono le cause di una cattiva prestazione sportiva più che sintomo di un disagio personale. Raccontare l’uomo dietro al calciatore, restituire carnalità ad un simbolo diventa così il fine centrale del cinema che incontra il pallone.
Una restituzione che può diventare anche un atto di giustizia. Come in Diego Maradona di Asif Kapadia (disponibile su Netflix), un documentario scisso come il suo protagonista. Il racconto si incentra sugli anni trascorsi a Napoli dall’argentino, periodo nel quale ha dovuto subire le conseguenze di diventare una leggenda. L’amore (e l’odio) estremo e continuo nei suoi confronti da parte di un popolo e dei media gli hanno lasciato come unico rifugio quello di ergere il personaggio Maradona, in difesa dell’uomo Diego. Finendo per cadere proprio in quella spaccatura, che si riflette anche sul documentario: c’è una separazione tra le diverse voci che portano avanti la narrazione e le immagini, esclusivamente di repertorio. È una tentata ricostruzione, quella di Kapadia, di un uomo che si è identificato fin troppo con la statua che gli è stata eretta, per poi perdersi nei suoi frammenti quando questa è andata in pezzi.
Un altro campione argentino sembra, invece, sciogliersi in una manciata di parole e pixel. In Messi – Storia di un campione (Netflix), Alex de la Iglesia lavora sulla bolla che gli si è creata attorno. In un ristorante, davanti ad un bicchiere di vino, diverse persone vicine a Messi, dagli amici di infanzia ai compagni di squadra, hanno in lui il solo argomento di conversazione. Inoltre, su alcuni televisori vengono mandati in onda delle immagini di repertorio, che arrivano anche a coincidere con delle scene di finzione. Messi diventa, quindi, un’idea, un’immagine, un’ideale e la “storia di un campione” del titolo diventa appannaggio di quest’essere smaterializzato. Ogni elemento del film testimonia un’assenza. Eppure, proprio grazie alla radicalità di quest’ultima si arriva ad intuire l’umanità di Messi. Come se la sovrapposizione di più vuoti creasse una positività. Come se l’uomo vivesse proprio nella distanza dalla sua narrazione.
La linea sottile che separa un riuscito ritratto di un calciatore da un’agiografia o un branded content sembrerebbe, quindi, essere una dovuta distanza dalla storia che si sta raccontando. Torna alla mente, allora, un esperimento radicalissimo come Zidane, un ritratto del XXI secolo, in cui i numerosi punti di vista con cui sono riprese le partite odierne convergono esclusivamente sul campione francese. Non c’è partita, non c’è racconto, c’è solo Zidane in campo con tutti i tempi morti che comporta fissare solo su di lui lo sguardo. Il calciatore, estraneo da ogni storytelling, torna ad essere pura performance. C’è, nella rinuncia a qualsivoglia racconto, la consapevolezza di un’inafferrabilità, di un’irracontabilità. Forse, questo è l’unico modo per rendere giustizia ad un campione. Forse c’è davvero più verità nell’adrenalina che ci trasmette una giocata di Zidane che in tutta la sua storia.